Uno sguardo sulle mie letture

Uno sguardo sulle mie letture

lunedì

Disturbo della quiete pubblica, Di Richard Yates

Disturbo della quiete pubblica si apre con la telefonata di Wilder alla moglie, la chiama per dirle che quella sera non può tornare a casa, lei chiede spiegazioni e lui dopo qualche farneticazione sbotta: “Lo vuoi veramente sapere, dolcezza? Perché ho paura che potrei uccidervi, ecco perché. Tutti e due”.

Disturbo della quiete pubblica, questo è il verdetto scritto sulla sua cartella quando verrà ricoverato nel centro specializzato nel trattamento degli alcolizzati violenti.

E John Wilder è alcolizzato, capita che perda il controllo, si agiti, urli e rechi disturbo a chi gli sta intorno, ma è ben lontano dallo stereotipo di alcolista, egli è sposato con una moglie che “ama le parole civile, ragionevole, sistemazione e rapporto” ha un figlio ed è un uomo di successo della middle class americana. Richard Yates, uno dei “grandi scrittori meno famosi d’america”, ha però compreso che nella vita non è tutto bianco o nero, che si può avere successo nel proprio lavoro, essere il più bravo di tutti, essere definito “indispensabile”, guadagnare molto ed allo stesso tempo essere rosi dall’incertezza, dall’ansia, dalla preoccupazione di come si viene visti dall’esterno, essere sempre intenti a calcolare, a valutare, a cercare di capire chi ha avuto di più, o più facilmente. Yates ha capito che il mondo non è “il posto migliore in cui stare: il posto in cui era più probabile che ci capitassero cose razionali”, ma è un mondo diviso in bastardi fortunati e perdenti.  John Wilder ha un progetto diverso della propria vita, vuole produrre un film, cosa per cui si sente tagliato, molto più che per il lavoro che ha sempre fatto. Si sente capace di una grandezza che rimane irrealizzata perchè le persone che lo circondano non vedono le sue doti eccezionali. E all’inseguimento di questo sogno “attiva” i semi dell’autodistruzione che risiedono in lui ed innesta un meccanismo implacabile che connette le cause agli effetti attraverso gli ingranaggi di una kafkiana macchina da tortura.

Non si può rimanere indifferenti a Wilder; si ascolta, si segue, si biasima, ma non si riesce proprio a giudicarlo. Nonostante la mania di autodistruzione, l’infedeltà, la cattiveria di cui è capace per gelosia o semplicemente a causa dell’alcol, non si riesce a condannarlo o a emettere un qualunque giudizio. Lui cade e si risolleva, lo vediamo barcollante e vorremmo aiutarlo ma rimaniamo a guardarlo, fino alla fine.

Yeats riesce a raccontare non solo la storia, ma il personaggio in maniera così equilibrata, matura e onesta da lasciare l’amaro in bocca, da farci chiudere il libro pensando che la “normalità” non esiste e tutto ciò che all’apparenza sembra chiaro, limpido e logico in realtà ha tante diverse sfaccettature.

il bignamino: in nome della debolezza, delle tenebre nevrotiche, della battaglia senza speranza e delle passioni autodistruttive dell’ignoranza
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giovedì

American Dust, di Richard Brautigan


Richard Gary Brautigan ha avuto un'infanzia travagliata a causa del divorzio precoce dei genitori e dei maltrattamenti subiti dai successivi compagni della madre. La fama arriva con la pubblicazione di Pesca alla trota in America (Trout Fishing in America) nel 1961. Trecentomila copie vendute nel primo anno, lezioni tenute ad Harvard, la copertina di Time Life, un disco in cui legge poesie e racconti, acclamato come nuova voce della letteratura americana e definito “un erede di Ernest Hemingway”, “un Mark Twain psichedelico”. Ma con gli anni, e il cambiamento della società statunitense, Brautigan non riesce a replicare quel successo, si chiude sempre più in se stesso per trascinarsi inesorabilmente verso la paranoia, l’alcolismo ed infine il suicidio. Bisogna partire da questa premessa per commentare questo libro, perché American Dust è un romanzo ispirato alla vita stessa dell’autore, in cui la narrazione scorre triste e rassegnata, fra ricordi e polvere, con la consapevolezza di chi si sente ormai fuori dai giochi, editoriali e non, esiliato dal mondo. Schegge di memoria che si muovono come in preda all’alcool, senza direzioni precise, tra rimandi interni e divagazioni nonsense. Ricordi che vorrebbero esplodere e cambiare strada, correggere il passato e redimere il destino, magari con l'aiuto di Superman. Non c'è nessun collante a tenere unite le cose. Oggetti ed esseri umani in questo breve romanzo se ne stanno lì, bizzarri e indifesi come granelli di polvere, del tutto scollegati dal loro contesto, pronti a essere spazzati via dal vento, uniti soltanto dallo sguardo e dal ricordo di un adolescente.
La polvere di Brautigan non lascia molte speranze: resta il fiato corto di una vita spezzata senza conoscere “quella cosa del sogno”. 

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Il Bignamino: Il ragazzino è un uomo e ricorda tristemente l'America dei suoi sogni

lunedì

Le Ore, di Di Michael Cunningham


Cunningham è un autore a cui piace creare il nuovo utilizzando il classico, che ama mescolare i diversi piani temporali (“è buffo pensare che quello che è il presente in questo preciso momento è già passato semplicemente alla fine di questa frase” intervista con M.C.). Virginia Woolf è stata la prima grande scrittrice che ha letto, ed è stata per lui come il primo bacio, quello che non si dimentica mai. Da questo bacio nasce un libro pluripremiato, “Le ore”. Ad essere protagonista sono tre donne poste su tre piani temporali diversi, tre realtà apparentemente distanti ma legate dagli stessi temi: l’amore per la letteratura, il dolore, la fuga e…la signora Dalloway, bel romanzo di Virginia Woolf. Lo scrittore descrive la sofferenza della scrittrice, il suo male di vivere e lo fa con rispetto e delicatezza. Parla della difficoltà di Virginia nella creazione di “Mrs Dalloway”, quanto questo libro sia stato partorito nel malessere della “pazzia” con sempre più rari episodi di serenità. Virginia, ma anche Laura e Clarissa: icone della (comune?) fatica di vivere,
“C’è solo questo come consolazione: un’ora qui o lì, quando le nostre vite sembrano, contro ogni probabilità e aspettativa, aprirsi completamente e darci tutto quello che abbiamo immaginato, anche se tutti tranne i bambini (e forse anche loro) sanno che queste ore saranno inevitabilmente seguite da altre molto più cupe e difficili”
“viviamo le nostre vite, facciamo qualunque cosa, e poi dormiamo – è così semplice e ordinario. Pochi saltano dalle finestre o si annegano o prendono pillole; più persone, muoiono per un incidente; e la maggior parte di noi, la grande maggioranza, muoiono divorata lentamente da qualche malattia o, se è molto fortunata, dal tempo stesso”
Tre donne che si muovono in bilico tra la vita e la morte, ipnotizzate, ammaliate, intimorite ma mai terrorizzate dai due estremi  
“Pensa a quanto più spazio occupi un essere in vita che in morte, a quanta dimensione illusoria sia contenuta nei gesti, nel movimento, nel respiro. Morti, ci riveliamo nelle nostre vere dimensioni, e sono dimensioni sorprendentemente modeste”.
Non a caso il libro si apre con l’asciutto, straziante racconto del suicidio di Virginia, le tasche piene di pietre, terrorizzata dalla guerra, terrorizzata dalla propria malattia, terrorizzata dalla possibilità di non essere nulla, non una scrittrice ma “solo una stravagante dotata”.
Il bignamino, amo la Vita, la morte non mi spaventa, il dolore si.
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giovedì

La passione secondo Thérèse, di Daniel Pennac


Non avevo letto nulla della saga della famiglia Malaussène ed iniziare dal penultimo capitolo, La passione secondo Therese, è stato…azzardato. Ma adesso Daniel Pennac mi ha fatto scoprire un mondo difficile da abbandonare, un colorato microcosmo che vive in una ferramenta parigina, che trova il suo centro gravitazionale nella flessuosa e incontenibile famiglia Malaussen. Da questa famiglia a nucleo allargato, impreziosita da razze e religioni, da colori e spezie, si erge Thérèse, la “spiritista in vetro di Murano”, la fredda e spigolosa Thérèse, che è innamorata e vuole sposarsi, la laconica profetessa che stavolta è incapace di predire il proprio futuro perchè
“L'amore rende ciechi, Benjamin, l'amore deve rendere ciechi! Ha la propria luce. Abbagliante”…”L'amore non si predice, si costruisce”
C’è una trama coinvolgente, animata da personaggi atipici, un racconto in continua tensione che non perde di credibilità malgrado le evoluzioni talvolta improbabili della vicenda, incroci surreali ma allo stesso tempo “le solite cose insomma”, perché questo sembra essere ciò che accade nel quotidiano al capro espiatorio Benjamin  Malaussène.
Divertente ma anche feroce nell’attaccare e dissacrare una certa classe dirigente dalla parvenza irreprensibile ma che nasconde le più atroci nefandezze (in questo i nostri politici sono avanti, non perdono tempo nel salvaguardare le apparenze). Ed eccomi oggi gioiosamente costretto ad aggiungere alla mia whish list, stavolta in rigoroso ordine di pubblicazione, Il paradiso degli orchi, La fata carabina, La prosivendola, Signor Malaussène, e lasciare alla fine l’ultimo capitolo del ciclo di Malaussène: Ultime notizie dalla famiglia.


Titolo originale: La passion selon Thérèse
Traduzione di Yasmina Melaouah
Pag. 172, Lire 24.000 - Edizioni Feltrinelli (I Canguri)
ISBN 88-07-70105-7

Il bignamino: Bisognerebbe vivere a posteriori. Decidiamo tutto troppo presto.
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lunedì

Il lamento del prepuzio, Di Shalom Auslander



«Quand'ero bambino i miei genitori e i miei insegnanti mi raccontavano di un uomo che era molto forte. Mi dicevano che era capace di distruggere il mondo intero. Mi dicevano che era capace di sollevare le montagne. Mi dicevano che era capace di dividere le acque del mare. Era importante che tenessimo quell'uomo di buon umore. Quando obbedivamo ai suoi comandamenti, gli eravamo simpatici. Gli eravamo così simpatici che uccideva chiunque non ci amasse. Ma quando non obbedivamo ai suoi comandamenti, non gli eravamo simpatici. Ci odiava. Certi giorni ci odiava tanto da ucciderci; altri giorni lasciava che ci uccidessero altri. Noi chiamiamo questi giorni "giorni di festa". Purim è quando cercarono di ucciderci i persiani. Pesach è quando cercarono di ucciderci gli egiziani. Chanukah è quando cercarono di ucciderci i greci».
Questo è il Dio insegnato a Auslander, un Dio cinico e vendicativo, cattivo e della propria cattiveria quasi fiero, un Dio che «da lassù … si sporge oltre l’orlo della sedia per guardare giù, gomiti sulle ginocchia, telecomando in mano, il pollice appoggiato leggermente su UCCIDERE».
Shalom ripercorre la sua vita “teologicamente abusata” all’interno della creazione, “un progetto concepito nel narcisismo e nella dominazione”. L'infanzia nel quartiere ebraico ortodosso di New York, il rapporto con la madre che crede che «guidare l'automobile di Shabbat è finire il lavoro che Hitler ha cominciato», una mamma «rimasta vittima di un “errore cosmico” all’atto dell’acquisto, ed ha passato tutti gli anni da quando ho osato diventare me stesso a cercare lo scontrino. “Questo” dice mentre si cerca nelle tasche e fruga ne cappotto “non è quello che ho comprato”». Una pubertà che fa affrontare a Shalom le prime comuni pulsioni sessuali in maniera decisamente….poco comune, perché se in ogni eiaculazione muoiono cinquanta milioni di spermatozoi, a lui insegnano che ogni volta che si masturba è responsabile di…«fanno circa nove olocausti, il che mi rendeva colpevole di genocidio dalle tre alle quattro volte al giorno». Con certe premesse non poteva fuggire al destino di una perdizione adolescenziale fatta di orge di cibo non kosher, giornali pornografici e spinelli.
«Quando cominciai la terza superiore, sentii che c’era qualcosa che non andava. Mi sentivo come il cavallo sullo stemma della Ralph Lauren: non sapevo bene se l’uomo con la mazza minacciosa che portavo in groppa fosse Dio, la famiglia, la comunità o tutti e tre assieme, ma sapevo che se fossi riuscito a disarcionare quel figlio di puttana sarei potuto scappare via per sempre.»
La scuola talmudica (impossibile non ridere quando racconta della gara di benedizioni), il rapporto con gli insegnanti «A volte mi chiedo se lui, il rabbino - e anche io - non soffriamo di una forma metafisica della sindrome di Stoccolma. Tenuti prigionieri da Costui per migliaia di anni, ora Lo lodiamo, Lo difendiamo, Lo scusiamo, qualche volta uccidiamo per Lui, un esercito di teenager in deliquio che giurano fedeltà al loro Charles Manson celeste». L'adolescenza passata a sfidare Dio e i precetti religiosi che la famiglia e i rabbini gli hanno inculcato salvo poi pentirsi e maldestramente cercare di porre rimedio alle trasgressioni, per paura della vendetta divina: «l'appetito di Dio nel mettermi alla prova era insaziabile almeno quanto la mia brama di fallire, ed i suoi piani erano spesso di una complessità sbalorditiva».
Con Dio parla ogni giorno, costruisce le sue azioni pensando a come Dio potrebbe reagire, di cosa potrebbe fare a lui e alla sua famiglia, con la ferma convinzione che Dio, a volte, sia proprio uno stronzo: «È lunedì mattina, sei settimane dopo che io e mia moglie abbiamo saputo che lei è incinta del nostro primo figlio, e io sono fermo a un semaforo. Il piccolo non ha alcuna probabilità di farcela. È un trucco. Io questo Dio lo conosco, lo so come funziona. Mia moglie abortirà, oppure il bambino morirà durante il parto, oppure mia moglie morirà durante il parto, oppure moriranno tutti e due durante il parto, oppure nessuno dei due morirà e io penserò di averla scampata, e poi mentre li riporterò a casa in macchina dall’ospedale avremo uno scontro frontale con un automobilista ubriaco, e moriranno tutti e due, mia moglie e mio figlio, al pronto soccorso proprio di fronte alla stanza dove ci trovavamo solo pochi minuti prima, felici, vivi e pieni di speranze. Sarebbe proprio da Lui.».
No, Auslander non è proprio Abramo, piuttosto si sente come Isacco «il figlio che non si era mai ripreso: il pensoso progenitore, che un popolo di fedeli preferì dimenticare, da grande divento un uomo che parlava di rado, reso passivo dal trauma subito, facile al vittimismo, un uomo inerte che non sembrava aver mai superato l’ammirevole gesto di sacrificio-a-spese-d'altri del suo stimato padre. E ora eccomi qua, sacrificato al suo stesso altare, allo stesso Dio, solo che questa volta non c'era nessun montone tra i cespugli».
L’ironia e l’allegria dura fino alla fine perché malgrado Shalom Auslander non sia più osservante, egli è rimasto rimasto “penosamente, straziatamente, incurabilmente, miserabilmente religioso”, il che alla luce di quanto ha raccontato significa che vive nel terrore che Dio si vendichi di questo suo imperdonabile libro e così nella pagina finale che di solito gli autori dedicano ai ringraziamenti.scrive:
«Quindi ti prego, Dio non uccidere mia moglie a causa di questo libro. Non uccidere mio figlio e non uccidere i miei cani. Se devi per forza uccidere qualcuno, uccidi Geoff Kloske alla Riverhead Books (il suo editore ndr). .... ma non uccidere me. E non uccidere Orly. E non uccidere nostro figlio. Dopotutto è solo un libro! ».

Una storia piacevole e divertente, trasgressiva ed accorata; a tratti si insinua il dubbio che, in fondo, siamo tutti un pò Shalom Auslander, che per quanta fede possiamo avere, indipendentemente dal credo e cultura, ci sono sempre dei momenti della nostra vita in cui Dio sembra averci preso di mira, sembra concederci grandi gioie per il gusto di lasciarci impreparati e deboli di fronte alla disgrazia che capita immancabilmente dopo.
Se il dialogo diretto con Dio è da sempre visto come una comunione spirituale altissima, non si può certo additare questo romanzo di blasfemia, in quanto parla con Dio con molta più sincerità e molta meno ipocrisia della maggior parte delle persone che si ritengono credenti o religiose. Sbagliato è anche affermare che sia un libro contro la religione ebraica, un'ode all'agnosticismo, al contrario è un libro contro chi insegna ogni religione come terrorizzante e abusiva, un libro quindi contro ogni fanatismo, che sfrutta alla perfezione le armi dell’irriverenza e del divertimento.

PS Passerò questo dicembre fra la città più santa e quella meno santa di Israele, se il vostro sito Virtual-Jerusalem si bloccasse non facendosi più carico di infilare nelle fessure del Muro del tempio delle preghiere inviate via e-mail, mi offro volontario, ma evitate di scrivere missive come queste «Caro Dio, per favore non uccidere mio figlio durante il parto: E neanche mia moglie. Forse sei incazzato con me, ma io pure sono incazzato con te, quindi vediamocela tra di noi. Grazie.»

Il Bignamino: le fotografie non rappresentano il reale contenuto.

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martedì

Lettera a un bambino mai nato, di Oriana Fallaci


Lettera a un bambino mai nato è un libro scritto da Oriana Fallaci nel 1975. La protagonista del libro si scopre incinta e tutta la narrazione si dipana intorno ad una domanda semplice “E’ giusto o meno mettere alla luce un bambino?”
Un libro, come riferisce la stessa Fallaci, è dedicato…
”A chi non teme il dubbio a chi si chiede i perché‚ senza stancarsi e a costo di soffrire di morire. A chi si pone il dilemma di dare la vita o negarla questo libro é dedicato da una donna per tutte le donne.”
 Ora, se c’è una cosa che ci unisce tutti tra di noi, io che scrivo e voi che leggete e commentate, è che siamo tutti figli. Poco importa se la vostra famiglia non l’avete mai vista o se invece è più felice di quella della Barilla. Tutti siamo stati messi al mondo non per nostra volontà ma perché qualcuno ha scelto per noi. Ed allora ecco il percorso di mente ed anima di una donna davanti a questa scelta. Una donna sempre contemporanea, priva di nome, volto e età. Le domande fondamentali che la donna si pone sin dal concepimento riguardano la legittimità e l'accettazione della nascita da parte del bambino in un mondo ostile, violento e disonesto.
“Ora eccomi qui, chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna il volto, i capelli, i pensieri. E in essa mi perdo. Cerca di capire: non é paura degli altri. Io non mi curo degli altri. Non é paura di Dio. Io non credo in Dio. Non è paura del dolore. Io non temo il dolore. E paura di te, del caso che ti ha strappato al nulla, per agganciarti al mio ventre. Non sono mai stata pronta ad accoglierti, anche se ti ho molto aspettato.”
Una madre che contiene in sè il seme della vita e che comunica al proprio figlio com’è difficile vivere fuori dal grembo. Un mondo dove non si vive, ma si sopravvive, dove la giustizia non esiste, il domani è uno ieri, pieno di errori, l’amore solo una parola priva di significato e gli amici rari. Una madre che vorrebbe farsi conoscere dal proprio figlio, ancor prima che nasca, e per farlo usa le sue favole spesso amare, pentendosene….
“Mi pento d'averti fornito sempre gli esempi più brutti, di non averti mai raccontato lo splendore di un'alba, la dolcezza di un bacio, il profumo di un cibo. Mi pento di non averti fatto ridere mai. Se tu mi giudicassi dalle fiabe che narravo, saresti autorizzato a concludere che io sono una specie di Elettra sempre vestita di nero. D'ora innanzi devi immaginarmi come un Peter Pan sempre vestito di giallo di verde di rosso e sempre intento a stendere nastri di fiori sui tetti, sui campanili, sulle nuvole che non diventano pioggia.”
Una donna che infine lancia una sfida al proprio figlio: a lui il diritto di decidere se vuole esistere o no, a lei il diritto di esistere senza lasciarsi condizionare da lui. Una storia particolare, che fa venire i brividi, in un accavallarsi di suspance che lascia senza fiato. E poi il colpo di scena, il verdetto finale:
“Lasciami parlare, mamma. Non avere paura. Non bisogna aver paura della verità…me lo hai insegnato tu che la verità é fatta di molte verità differenti. Sono nel giusto coloro che ti hanno accusato e coloro che ti hanno difeso, coloro che ti hanno assolto e coloro che ti hanno condannato. Però quei giudizi non contano. Tuo padre e tua madre hanno ragione a rispondere che non si può entrare nell'anima altrui, e che l'unico testimone son io. Soltanto io, mamma, posso affermare che mi hai ucciso senza uccidermi. Soltanto io posso spiegare come l'hai fatto e perché…Ma perché‚ dovrebbe esistere, perché‚ deve esistere (uno scopo), mamma? Lo scopo qual é? Te lo dico io, mamma: un'attesa della morte, del niente. Nel mio universo che tu chiamavi uovo, lo scopo esisteva: era nascere. Ma nel tuo mondo lo scopo é soltanto morire: la vita é una condanna a morte. Io non vedo perché avrei dovuto uscire dal nulla per tornare al nulla”
Ma in questo processo dell’anima matura la consapevolezza che non è possibile dare giudizi…“Quasi che il dilemma di esistere o non esistere si potesse risolvere con una sentenza o un'altra, una legge o un'altra, e non toccasse ad ogni creatura risolverlo da se per se. Quasi che intuire una verità non aprisse interrogativi su una verità opposta, ed entrambe non fossero valide”
Cosi rimane solo l’amarezza di una madre per un figlio che avrebbe voluto vedere vivere perché “Benedetto colui che può dirsi: «Io voglio camminare, non voglio arrivare». Maledetto colui che si impone: «Voglio arrivare fin là». Arrivare é morire”
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Kitchen, di Banana Yoshimoto


Banana Yoshimoto è nata a Tokyo nel 1964, figlia di uno dei più importanti filosofi giapponesi degli anni sessanta, con una sorella conosciuta come una delle migliori fumettiste di anime giapponesi. Laureata al college delle arti, “Kitchen” è il suo primo romanzo con oltre sessanta ristampe in Giappone. Quando ho iniziato a leggerlo ho trovato uno dei più begli incipit mai letti:

“Non c’e’ posto che io ami di più della cucina. Non importa dove si trova, com’e’ fatta: purché sia una cucina, un posto dove si fa da mangiare, io sto bene. Se possibile le preferisco funzionali e vissute. Magari con tantissimi strofinacci asciutti e puliti e le piastrelle bianche che scintillano.
Anche le cucine incredibilmente sporche mi piacciono da morire.
Mi piacciono col pavimento disseminato di pezzettini di verdura, così sporche che la suola delle pantofole diventa subito nera, e grandi, di una grandezza esagerata. Con un frigo enorme pieno di provviste che basterebbero tranquillamente per un intero inverno, un frigo imponente, al cui grande sportello metallico potermi appoggiare. E se per caso alzo gli occhi dal fornello schizzato di grasso o dai coltelli un po’ arrugginiti, fuori le stelle che splendono tristi. Nei momenti in cui sono molto stanca, mi succede spesso di fantasticare. Penso che quando verrà il momento di morire, vorrei fosse in cucina…”

Certo, il mio criterio estetico qui si identifica con il mio stile di vita, ma poco importa. Kitchen è un romanzo sulla solitudine giovanile che utilizza un linguaggio assai fresco e originale, una rielaborazione letteraria dello stile dei fumetti manga. Una storia di madri, amore, tragedia, l’influenza della cucina e della casa sulle vite. Il segreto di tanto successo? Probabilmente più che i contenuti, sono le atmosfere. Descrive sensazioni che riportano all'infanzia, che soprattutto i più piccoli provano nella loro genuinità. Cose molto semplici, una bella giornata di sole, la separazione da una persona cara…l’amore per il cibo e per il suo tempio, la cucina per l’appunto. Emozioni che tutti abbiamo provato in una fase della nostra vita, e che come tali possono essere recepite da tutti.
Un libro che non mi ha stregato ma ammetto che a tratti l’apparente semplicità di alcune narrazioni ha fatto eco nella mia mente e nel cuore, come quando ho letto del fenomeno Tanabata: ogni cento anni  è possibile vedere, presso i grandi fiumi, l’immagine di una persona cara che è morta. Questo, però, avviene solo se c’è corrispondenza tra i pensieri di chi è morto e il dolore di chi lo ha perduto…Chi di noi non ha almeno una persona cara da voler vedere su quel fiume, quel giorno, per un ultimo saluto? 

Voto: ***
Il Bignamino: Cucino, dunque sono

mercoledì

L'eleganza del riccio, di Muriel Barbery

 Muriel Barbery è un ex insegnante di filosofia dell'educazione in Normandia, una francese affascinata dal Giappone e dalla cultura giapponese, un fascino ed un’ammirazione che emergono con forza dal suo secondo romanzo “L'eleganza del riccio” uscito in Francia nel 2006.
La narrazione di questo libro è affidata a due voci femminili che si alternano irregolarmente esprimendosi in prima persona e si rapportano entrambe al lettore creando due personaggi tanto apparentemente diversi quanto intimamente uguali.
La prima voce è quella di Renée, portinaia cinquantaquattrenne di un immobile che si trova al numero 7 della rue de Grenelle, via situata nel settimo arrondissement di Parigi, quartiere alto borghese, abitato per lo più da intellettuali tendenzialmente di sinistra. Renée è curiosa e colta, ma ai ricchi inquilini fa credere di essere identica allo stereotipo della portinaia, e dunque li rassicura mettendo a tutto volume un programma trash, e mentre loro la immaginano «stravaccata davanti all' apparecchio», si rintana in una stanzetta ed ascolta Gustav Mahler ed Henry Purcell, ha letto Marx e ama gli scrittori russi (Il suo gatto si chiama Lev in omaggio a Tolstoj), discetta sulla fenomenologia di Husserl e ama i film di Yasujiro Ozu. Per dar forza alla sua clandestinità veste sciattamente, fa continue spese ostentando sporte da cui emergono ciuffi di verdura, grosse fette di carne o prosciutto, pasta e passata di pomodoro, e via dicendo. Il prologo da già un’idea del personaggio e del suo camuffamento
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   «Marx cambia completamente la mia visione del mondo» mi ha dichiarato questa mattina il giovane Pallières che di solito non mi rivolge nemmeno la parola.
   Antoine Pallières, prospero erede di un'antica dinastia industriale, è il figlio di uno dei miei otto datori di lavoro. Ultimo ruttino dell'alta borghesia degli affari - la quale si riproduce unicamente per singulti decorosi e senza vizi -, era tuttavia raggiante per la sua scoperta e me la narrava di riflesso, senza sognarsi neppure che io potessi capirci qualcosa. Che cosa possono mai comprendere le masse lavoratrici dell'opera di Marx? La lettura è ardua, la lingua forbita, la prosa raffinata, la tesi complessa.
   A questo punto, per poco non mi tradisco stupidamente.
   «Dovrebbe leggere L'ideologia tedesca» gli dico a quel cretino in montgomery verde bottiglia.
   Per capire Marx, e per capire perché ha torto, bisogna leggere L'ideologia tedesca. È lo zoccolo antropologico sul quale si erigeranno tutte le esortazioni per un mondo migliore e sul quale è imperniata una certezza capitale: gli uomini, che si dannano dietro ai desideri, dovrebbero attenersi invece ai propri bisogni. In un mondo in cui la hybris del desiderio verrà imbavagliata potrà nascere un'organizzazione sociale nuova, purificata dalle lotte, dalle oppressioni e dalle gerarchie deleterie.
   "Chi semina desiderio raccoglie oppressione" sono sul punto di mormorare, come se mi ascoltasse solo il mio gatto.
   Ma Antoine Pallières, a cui un ripugnante aborto di baffi non conferisce invece niente di ferino, mi guarda, confuso dalle mie strane parole. Come sempre, mi salva l'incapacità del genere umano di credere a ciò che manda in frantumi gli schemi di abitudini mentali meschine. Una portinaia non legge L'ideologia tedesca e di conseguenza non sarebbe affatto in grado di citare l'undicesima tesi su Feuerbach. Per giunta, una portinaia che legge Marx ha necessariamente mire sovversive ed è venduta a un diavolo chiamato sindacato. Che possa leggerlo per elevare il proprio spirito, poi, è un'assurdità che nessun borghese può concepire.
   «Mi saluti tanto la sua mamma» borbotto chiudendogli la porta in faccia e sperando che la disfonia delle due frasi venga coperta dalla forza di pregiudizi millenari.
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La seconda voce è quella di Paloma (e del suo journal intime), ragazzina dodicenne altrettanto determinata ad occultare i propri talenti al mondo dei superficiali borghesi. Lei finge di essere una ragazzina come le altre, si veste come loro, a scuola segue bene ma senza emergere, pur essendo straordinariamente in anticipo rispetto alle coetanee, è capace ad esempio di leggere i manga Jirō Taniguchi in lingua originale.
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Ieri sera a cena la mamma ha annunciato che esattamente dieci anni fa ha cominciato la sua "anaalisi", come se fosse un buon motivo per fare scorrere fiumi di champagne. Siete tutti d'accordo che è una cosa me-ra-vi-glio-sa! Mi pare che solo la psicanalisi possa competere con il cristianesimo nella predilezione per le sofferenze prolungate. Quello che mia madre non dice è che da dieci anni prende degli antidepressivi. Ma evidentemente non mette in relazione le due cose. Credo che gli antidepressivi non servano ad alleviare le sua angosce, ma a sopportare l'analisi. Quando racconta le sue sedute, c'è da sbattere la testa al muro. Il tizio fa «Hmmm» a intervalli regolari ripetendo i finali delle frasi («E sono andata da Lenôtre con mia madre»: «Hmmm, sua madre?»; «Mi piace molto la cioccolata»: «Hmmm, la cioccolata?»). Se è così, domani posso lanciarmi anch'io nella psicanalisi. Oppure le propina delle conferenze della «Causa freudiana» che, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non sono dei rebus ma dovrebbero avere un qualche significato. Subire il fascino dell'intelligenza è davvero molto affascinante. Secondo me l'intelligenza non è un valore in sé. Di gente intelligente ce n'è a pacchi. Ci sono molti dementi, ma anche molti cervelli eccezionali. Sarà una banalità, ma l'intelligenza in sé non ha alcun valore e non è di nessun interesse. C'è gente molto capace che ha speso una vita sulla questione del sesso degli angeli, per esempio. E molte persone intelligenti hanno una specie di bug: credono che l'intelligenza sia un fine. Hanno un'unica idea in testa: essere intelligenti, e questa è una cosa stupidissima. E quando l'intelligenza crede di essere uno scopo, funziona in modo strano: non dimostra la sua esistenza con l'impegno e la semplicità dei suoi frutti, bensì con l'oscurità della sua espressione.
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Paloma è a tal punto lucida e consapevole della vanità del tutto (in particolare della rinuncia agli ideali di cui l'età adulta è ai suoi occhi irrimediabilmente schiava) da aver deciso di uccidersi, il giorno del tredicesimo compleanno, per non dover passare anche lei dalla parte della rinuncia. Una rinuncia a priori insomma, scelta invece che subita.
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la gente crede di perseguire ideali, raggiungere l’altezza delle stelle, ma si finisce tutti “comme des poissons rouges dans un bocal” (come dei pesci rossi in una boccia).
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Lo sguardo di Renée e di Paloma si posa sul microcosmo del condominio dove risiedono, invita a riflettere con una semplicità disarmante, e la semplicità, spesso, non è facile da raggiungere. I due diari procedono in forma contrappuntistica: dapprima hanno in comune solo la scelta della clandestinità e l’ambiente esterno; poi si sorreggono l’un l’altro e, infine, grazie all’azione catalizzatrice di Monsieur Ozu, si incontrano e si completano tra di loro, proprio come avviene alle rispettive redattrici. L’incontro avviene a livello più alto, ben al di là delle differenze sociali e contingenti, avviene a livello della Bellezza, dell’attimo eterno sottratto al fluire insensato. La gentilezza, l’amicizia, la solidarietà sottraggono, magari solo per un attimo, ma per sempre, a un Tempo volgare e ostile, la Vita.
Ci sono anche altri personaggi di valore, la domestica portoghese di casa de Broglie ad esempio, che invece di rientrare nello stereotipo della gretta donna delle pulizie è una vera ristocratica che "sebbene circondata dalla volgarità, non ne viene sfiorata".
Tutto qui? E la ragione del successo di questo libro? Immagino che molto si basi sulla simpatica furbizia della morale non nascosta del libro: non bisogna mai fidarsi delle apparenze. Perché se la più sciatta e scorbutica portinaia parigina (il «riccio» di cui pagina dopo pagina si scopriva l'eleganza) può nascondere cultura e sensibilità, allora anche il più bistrattato lettore può aspirare allo stesso riconoscimento. C’e’ inoltre l’educata denuncia della superficialità borghese e la simpatica trasformazione del «bruco/riccio» Renée in farfalla, utilizzando tutti gli ingredienti che fanno la forza delle favole, dal mito di Cenerentola a quello della rivincita degli oppressi, dal fascino dell'Oriente (e dei suoi «sorprendenti» bagni) alla lungimiranza giovanile (e dei suoi coinvolgenti entusiasmi), dalla forza dell'amore al dramma della morte. Senza dimenticare il piacere di una citazione tolstoiana messa lì al momento opportuno.
 Ciò malgrado il libro non mi ha entusiasmato, si avverte a volte uno “slittamento di piani” in cui ci si chiede se a parlare fosse Renée o piuttosto Paloma. Senza contare che la filiale-materna corrispondenza tra l’adolescente e la donna matura sboccia quasi per incanto, non troppo suffragata dallo svolgimento della narrazione, e a meno di voler dire che “le anime belle si riconoscono subito fra di loro”, fa sorgere il dubbio che Renée e Paloma, pur presentate con tante differenze, non siano in realtà che una voce sola. Eccede inoltre in più di un’occasione in dissertazioni e citazioni appesantendo la storia con un eccesso di nozionismo, bloccandola, irrigidendola. Personalmente trovo che la narrazione decolli solo all'arrivo di Monsieur Ozu, in cui finalmente l'autrice si dedica al personaggio in quanto tale e non al personaggio in quanto veicolo di pensieri.
Rimane comunque un libro piacevole, a tratti molto piacevole, che mi ha spinto ad aggiungere nella mia wish list i libri “Teresa Desqueyroux” e “Groviglio di vipere” del nobel François Mauriac, mi ha fatto ascoltare per la prima volta alcuni brani di Georg Friedrich Händel, il terzo atto di Dido and Æneas di Purcell e…il rap MC Solaar, e mi sono ripromesso di “assaporare lo spettacolo” del Wabi-cha, stile della Cerimonia del tè giapponese praticata secondo gli insegnamenti dei monaci buddisti. Quindi un bilancio sicuramente positivo, che mi spinge a consigliare questo libro soprattutto ai più curiosi ed eclettici lettori di anobii.

La citazione: …lo sguardo è come una mano che tenta inutilmente di afferrare l’acqua che scorre. Si, l’occhio percepisce ma non scruta, crede ma non interroga, recepisce ma non indaga, è privo di desiderio e non persegue nessuna crociata

Titolo originale: L'élegance du hérisson
Traduzione di Emanuelle Caillat e Cinzia Poli

venerdì

Una storia semplice, di Leonardo Sciascia


Leonardo Sciascia
Una storia semplice Adelphi
18 marzo 1989, una telefonata improvvisa è la premessa di un crimine, un omicidio, di carattere malavitoso, intorno al quale si stringe un cerchio di omertà e di paura, un delitto in cui la mafia si nasconde attraverso un’immagine di giustizia, e si impone su coloro che sono “vinti” dalla vita costringendoli a percorrere una strada di silenzio e di sottomissione.
Una scrittura precisa e asciutta che lascia poco o nulla alla retorica, un modo di scrivere è perfettamente calzante con questo passaggio:

“il brigadiere cominciò a fare il suo lavoro di osservazione, in funzione del rapporto scritto che gli toccava poi fare: compito piuttosto ingrato sempre, i suoi anni di scuola e le sue non frequenti letture non bastando a metterlo in confidenza con l’italiano. Ma, curiosamente, il dover scrivere delle cose che vedeva, la preoccupazione, l’angoscia quasi, dava alla sua mente una capacità di selezione, di scelta, di essenzialità per cui sensato ed acuto finiva con l’essere quel che nella rete dello scrivere restava. Così è forse degli scrittori italiani del meridione, siciliani in specie: nonostante il liceo, I’università e le tante letture.”

Amo la Sicilia, e quanto mi colpisce rivedere in certi passaggi quella “indifferenza” alla morte, naturale e causata,  che è tipica delle generazioni antecedenti alla mia…e non solo:

“Io voglio sapere da lei, signora, se ha qualche ragione o sospetto riguardo all’uccisione di suo marito” La signora scrollo le spalle “Era siciliano” disse “e i siciliani, ormai da anni, chi sa perché, si ammazzano tra loro” “giudizio indefettibile”disse ironicamente il figlio”

“Ma il professore parlò dei propri mali, lasciando memorabile al brigadiere (ma non condivisibile nell’energia dei suoi trent’anni) la frase che ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza”

lunedì

La regina dei castelli di carta, di Stieg Larsson


Se si è iniziato il terzo (ed ultimo) romanzo della trilogia Millenium, vuol dire che lo si leggerà con la testa ed il cuore rivolti alla giovane hacker  Lisbeth Salander. L’avevamo lasciata immobilizzata in un letto d'ospedale con una pallottola in testa. Come sempre è una minaccia, stavolta per i potenti organismi segreti che rischiano di crollare come castelli di carta. Deve sparire, meglio se rinchiusa in un manicomio, la cospirazione di cui si trova suo malgrado al centro, iniziata quando aveva solo dodici anni, deve terminare adesso, con o senza la sua vita. E poco importa che la trama sia costellata di storielle parallele di dubbio interesse, che vi siano personaggi extra che appaiono e scompaiono in qualche capitolo, che continui l'irritante attività sessuale di Blomkvist alla cui porta bussano in continuazione donne che desiderano farsi sollazzare senza impegno da lui (che la mia sia solo invidia?); poco importa l’interesse nullo per le impronunciabili strade di Stoccolma o per la storia politica svedese perchè i nostri personaggi, fortunatamente, continuano ad essere loro, a non deludere e ad appassionare, si riaffermano in tutte le loro caratteristiche: il disumano Zalachenko ed il suo inquietante figlio, l’inarrestabile giornalista Mikael e sua sorella Annika Giannini che accetta la difesa legale di Lisbeth, oltre all'eterna amante Erika Berger…e Lei, l’Unica, la versione cyber-punk di Pippi Calzelunghe (Larsson era un fan di Astrid Lindgren), Lisbeth.
Sembra che Larsson sul divano bianco dell'appartamento di Stoccolma era solito rivolgere a Eva Gabrielsson, la sua compagna di oltre trent'anni, i suoi  «Non indovinerai mai che cosa ha appena fatto Lisbeth Salander». Perche’ alla fine della trilogia ci si è ormai affezionati a lei, forse innamorati, ed allora poco importano i diversi, presunti, difetti, la domanda che ci si pone e’ sempre la stessa, quella dell’autore, di cosa sarà mai capace stavolta Lisbeth Salander?
    Forse è vero che Lisbeth è un’icona di ciò che molte ventenni vorrebbero essere, e di come molte 45enni oggi vorrebbero essere state. E’ ribelle e intelligente, anticonformista in senso stretto, una che ama vivere al suo personalissimo modo e secondo le sue regole con una forte allergia per qualsiasi tipo di autorità. E’ sociopatica, cinica, dura e soffre di una sindrome con una vaga componente autistica.
Un personaggio commovente ed intenso, che si ha l’impressione abbia preso vita e spazio, pian piano, fino a che Larsson, intelligentemente, non si è limitato solo a gestirlo, approfittando di un profilo psicologico inquietante ma pieno di fascino, ma ne ha fatto il perno attorno a cui ruota l’intera trilogia. E alla fine questo terzo volume non solo è godibile quanto gli altri ma per una volta chiude degnamente una trilogia. E se così non fosse, poco importa perchè alla fine, ciò che rimane davvero è l’immagine unica ed indimenticabile di lei, di Lisbeth, una donna che odia gli uomini che odiano le donne.

The End? Forse, ormai spero nel quinto volume, contenuto nel pc di Stieg e custodito da Eva Gabrielsson, e spero che dall’aldilà’ Stieg detti a qualche medium anche il quarto manoscritto, in cui farebbe la sua comparsa la sorella gemella di Lisbeth Salander. La speranza è come Lisbeth, l’ultima a morire.

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