Uno sguardo sulle mie letture

Uno sguardo sulle mie letture

martedì

Emmaus, di Alessandro Baricco

Uno fra I libri piú belli letti nel 2011, semplice e veritiera mi e’ sembrata la descrizione della fiducia filiale:
«Abbiamo una fiducia cieca nei nostri genitori, quello che vediamo in casa è il giusto ed equilibrato andare delle cose, il protocollo di ciò che consideriamo una sanità mentale. Adoriamo i nostri genitori per questo - ci mantengono al riparo da qualsiasi anomalia. Così non esiste l'ipotesi che loro, per primi, possano essere un'anomalia - una malattia. Non esistono madri malate, ma solo stanche. I padri non falliscono mai, sono a volte nervosa… come rettili di palude conosciamo solo quel mondo, e la palude è per noi la normalità.Per questo siamo in grado di metabolizzare incredibili dosi di infelicità scambiandole per il doveroso corso delle cose: non sfiora il sospetto che nascondano ferite da curare, e fratture da ricomporre»
«Non posso fare questo a mio padre… Ci disarma, infatti, l'inclinazione a pensare che la nostra vita sia, innanzitutto, un frammento conclusivo della vita dei nostri genitori, solo affidato alla nostra cura. Come se ci avessero incaricato, in un momento di stanchezza, di tenere un attimo quell'epilogo per loro prezioso- ci si aspetta da noi che lo restituissimo, prima o poi, intatto. L'avrebbero poi ricollocato a posto, formando la rotondità di una vita compiuta, la loro. Ma ai nostri padri stanchi, che si erano fidati di noi, noi restituiamo il taglio di cocci affilati, oggetti scappati di mano. Nel sordo strisciare di un simile fallimento, non troviamo il tempo di riflettere, nè la luce di una ribellione. Solo l'immobilità sorda della colpa. Così tornerà nostra, la nostra vita, quando sarà ormai troppo tardi»
Convincente la rilettura del Vangelo a umanizzare le nostre temporanee ma quotidiane cecitá:
«Nei Vangeli c'è un episodio che amiamo molto, come il nome che porta, Emmaus. Qualche giorno dopo la morte di Cristo, due uomini camminano per la strada che conduce alla cittadina di Emmaus, discutendo di ciò che è successo sul Calvario, e di alcune voci,strane, di sepolcri aperti e tombe vuote. Si avvicina un terzo uomo e domanda loro di cosa stanno palrando. Allora i due gli raccontano della morte di Cristo e ogni cosa. Lui ascolta. Più tardi fa per andarsene, ma i due gli dicono di restare a mangiare con loro, che ormai è già sera. E lui rersta con loro. Durante la cena l'uomo spezza il pane, con tranqullità, con naturalezza. Allora i due riconoscono in lui il Messia, ma lui sparisce. Rimasti soli, i due si chiedono: Come abbiamo potuto non capire? Per tutto il tempo che è stato con noi, il Messia era con noi, e noi non ce ne siamo accorti. Ci piace la linearità - quanto è semplice la storia. E come tutto è reale, senza fronzoli. Non fanno che gesti elementari, necessari, tanto che alla fine il disparire di Cristo sembra un fatto scontato, quasi una consuetudine. Ci piace la linearità, ma non basterebbe tanto a farci amare quella storia, che invece amiamo così tanto, ma per un'altra ragione ancora, questa: in tutta la storia, ognuno non sa. All'inizio Gesù stesso sembra non sapere di sé, e della sua morte. Poi loro che non sanno di lui, della sua resurrezione. E alla fine si chiedono: come abbiamo potuto? Noi conosciamo quella domanda. Come abbiamo potuto non sapere, per così tanto tempo, nulla di ciò che era, e tuttavia sederci alla stessa tavola di ogni cosa e persona incontrata sul cammino? Cuori piccoli - li nutriamo di grandi illusioni, e al termine del processo camminiamo come discepoli, a Emmaus, ciechi, al fianco di amici e amori che non riconosciamo - fidandoci di un Dio che non sa di se stesso. Per questo conosciamo l'avvio delle cose e poi ne riceviamo la fine, mancando sempre il loro cuore. Siamo aurora ma epilogo - perenne scoprta tardiva. Ci sarà, forse, un gesto che ci farà capire. Ma per adesso noi viviamo, tutti.»
Mi sono ritrovato nella descrizione dei Cristiani:
«Cresciamo, nell’idea di essere degli eroi – ma tuttavia di un tipo strano, che non discende nella tipologia classica dell’eroe – non amiamo infatti le armi, né la violenza, né la lotta animale. Siamo eroi femmina per quel nostro insinuarci nelle bagarre a mani nude, forti di un candore infantile e invincibile nel nostro assetto che è irritante modestia. Strisciamo tra le ruote dentate del mondo a fronte alta ma con il passo degli ultimi – lo stesso passo schifosamente umile, e fermo, con cui Gesu’ di Nazareth cammino’ il mondo per tutta la sua vita publica, fissando prima che una dottrina religiosa un modello di comportamento….Nel fondo di questa epopea rovesciata, troviamo Dio. È un passo naturale, che viene da sé. Crediamo così tanto in ogni creatura, che ci risulta normale pensare ad una creazione. Un gesto sapiente che chiamiamo con il nome di Dio.»
Cosí come nei passati dubbi atei:
«nell’assenza di senso, il mondo pur tuttavia accade, e in quell’acrobazia di esistere senza coordinate c’è una bellezza, perfino una nobiltà, talvolta, che noi non sappiamo – come una possibilità di eroismo a cui non abbiamo mai pensato, l’eroismo di una qualche verità. E riconosci questo, coi tuoi occhi, nel fissare il mondo, anche una sola volta, allora sei perduto. E in quell’attimo Dio sfuma come un ripiego infantile»
Baricco scrive di religione senza abbandoarsi in banalitá, di orge senza cadere nel volgare, di omicidi senza scadere nella violenza, di passione vestendola di desiderio ma anche di martirio, di padre e figli senza tradire la veritá.

Ed adesso vi lascio alla descrizione di una icona della Madonna che ritroverete nel libro:
"È la pagina di un libro. Quei libri grandi d’arte, patinati. Da una parte c’è solo testo, dall’altra la Madonna – col Bambino. È importante dire che un solo sguardo la può abbracciare interamente – una lettera dell’alfabeto. Benché siano molte le cose distinte che figurano nel quadro, bocca, mani, occhi – e due cose più distinte di altre, la madre e il bambino. Ma sciolte in un’immagine che è chiaramente una, e sola, nel nero, intorno.
È una vergine – questo occorre ricordarlo.
La verginità della madre di Gesù è un dogma, stabilito dal Concilio di Costantinopoli nel 553, quindi è materia di fede. In particolare, la Chiesa cattolica, quindi noi, crede che la verginità di Maria sia da considerare perpetua – cioè effettiva prima, durante e dopo il parto. Dunque questo quadro ritrae una madre vergine e il suo bambino.

Va detto che lo fa come se infinite madri vergini di infiniti bambini fossero state richiamate lì, dalla distanza in cui dimoravano, a convenire in un’unica possibilità, dimentiche delle trascurabili differenze e singolarità – richiamate a un unico stare, di riassuntiva intensità. Ogni madre vergine e ogni bambino, quindi – questo anche è importante. In un gesto dolce della Madonna, ad esempio, è raccolta la memoria intera di ogni dolcezza madre – reclina la testa da un lato, la sua tempia tocca quella del Bambino, passa la vita, pulsa il sangue – nel tepore.
Il Bambino ha gli occhi chiusi e la bocca spalancata – agonia, profezia di morte, o solo fame. La madre vergine gli regge il mento con due dita – una cornice. Bianche le fasce del bambino, porpora la veste della madre vergine . nero il velo, sceso su tutt’e due.
Totale è l'immobilità. Non c'è peso che debba cadere, o piega fermata in qualche sciogliersi, o gesto da portare a termine. Non c'è arresto del tempo, non è il taglio tra un prima e un dopo - è sempre.
Sul volto della madre vergine, una mano non vista ha scostato ogni espressione possibile, lasciando un segno che significa solo se stesso.
Un'icona.
Se la si fissa a lungo, gradatamente lo sguardo vi si inabissa, seguendo una traccia che sembra obbligata - quasi un'ipnosi. Così si disfa ogni particolare, e alla fine la pupilla non ha più movimento, nel vedere, ma resta fissa in un unico punto, dove vede tutto - il quadro intero, e ogni mondo convocato lì.
Quel punto è dove sono gli occhi. Sul volto della Madonna, gli occhi. Era norma di bellezza che non esprimessero niente. Vuoti – non guardano infatti, ma sono fatti per ricevere lo sguardo. Sono il cuore cieco del mondo.
Quanta maestria deve essere occorsa per ottenere tutto ciò. Quanti errori prima di ottenere quella perfezione. Per generazioni si sono passati il lavoro, senza mai perdere la fiducia di saperlo fare, prima o poi. Quale urgenza li spingeva, perché tanta cura? A quale promessa tenevano fede? Cosa andava salvo, per i figli dei figli, nel lavoro delle loro mani?
L’ambizione che abbiamo imparato – ecco cosa.
Un messaggio segreto, nascosto sul retro del culto e della dottrina. La memoria di una madre vergine. Divinità impossibile in cui riposava, placato, tutto ciò che nell'esperienza umana conoscevano come strazio e squarcio. In lei adoravano l'idea che in un'unica bellezza potesse ricomporsi ogni contrario, e tutti gli opposti. Sapevano che nel sacro questo si impara, la nascosta unità degli estremi, e la capacità che abbiamo di rievocarla in un unico gesto, compiuto - sia esso un quadro o una vita intera. Vergine e madre - arrivarono a immaginarla come riposo, e perfezione. Non si placarono fino a quando non la videro, generata dalla loro maestria.
Così la promessa è stata mantenuta, e i figli dei figli hanno ricevuto in eredità coraggio e follia. Più di ogni inclinazione morale, e nel rovescio di tutte le dottrine, ciò che abbiamo ricevuto dalla nostra formazione religiosa è stato innanzitutto un modello formale – un modello ossessivamente ripetuto nella violenza delle immagini che ci raccontavano la buona novella. La stessa unità folle della Vergine madre dimora nell’estasi dei martiri, è in ogni apocalisse che è inizio dei tempi, e nel mistero dei demoni, che erano angeli. Nel modo più alto, e carogna, dimora nella nostra icona ultima e definitiva, quella del Cristo inchiodato sulla croce – ricomposizione di vertiginosi estremi, padre figlio spirito santo, in un unico cadavere, che è Dio e non lo è. Dell’aporia per eccellenza abbiamo fatto un feticcio – siamo gli unici che adorano un dio morto. E allora come potevamo non imparare, innanzitutto, questa capacità di impossibile – e l’ambizione a colmare qualsiasi distanza? Così, mentre ci insegnavano la retta via, noi già eravamo ragnatele di sentieri, e ovunque era la nostra meta.
Ci hanno taciuto che era così difficile. Quindi tracciamo madonne imperfette, sorpresi di non trovare al termine quegli occhi vuoti – ma invece dolore e rimorso. Per questo ci feriamo e moriamo. Ma è solo una questione di pazienza. Di esercizio.
Dice il Santo che è come le dita di una mano. Si tratta solo di chiuderle lentamente, nella forza di una stretta mite – dovessimo metterci una vita intera. Dice che non dobbiamo spaventarci, e che se siamo tutto, questa è la nostra bellezza, non la nostra malattia. E' il rovescio dell'orrore»