Uno sguardo sulle mie letture

Uno sguardo sulle mie letture

sabato

Tutta la luce che non vediamo, di Anthony Doerr

Che bel libro, dove la paura e la speranza sono le protagoniste di un mondo che si fa a pezzi, dove la nazionalità dei protagonisti è vittima in modi opposti; un mondo votato al massacro dove però qualche cuore riesce a battere, dove qualche mente non smette di ragionare, dove alcune coincidenze fanno tornare la pace nell’animo ferito. Una storia di sconfitti e della voglia di non voler essere passivi di fronte a quello che appare inevitabile.
In questo scenario due protagonisti, Laure e Werner, i cui destini di si incrociano a lungo, un incontro preparato ad arte dall’autore che alterna capitoli in cui vengono narrate le vite parallele dei due giovani. Tanto è luminosa e’ la cieca Marie-laure quanto triste e combattuto è il brillante Werner, in perenne bilico fra senso del dovere e l’impotenza di sentirsi granellino di sabbia in un gigantesco meccanismo di brutalità. La piccola Marie-Laure invece, anche se non vede da quando aveva sei anni «nel suo buio riesce a vedere una luce tutta sua», perché capisce che la vita è bella e vale sempre la pena viverla, nonostante tutto, nonostante il buio che, a tratti, ci avvolge impedendoci di vedere il resto. Quello che li/ci salva dal male è l’imprevedibile slancio verso ciò che è buono e bello, un anelito insito nella parte più vera, spontanea e profonda della natura umana. Intorno a questi due giovani una bella galleria dei personaggi: il pittoresco zio Etienne  e la temeraria partigiana Madame Manec, l’indomito sognatore Frederick, l’affettuosa Frau Elena e la sorella Jutta, cosi matura a dispetto della sua eta.
Una storia particolarmente poetica ed emozionante, oscurità e luce, la vita e la morte, l’ assurdo di una guerra e l’ innocenza di chi deve combatterla a 16 anni insieme al coraggio di che cerca di sopravvivere.
Un libro dedicato a tutti coloro che naturalmente credono, e coloro che si sforzano di credere, che anche nelle più grandi pazzie del mondo possa esserci una trama, non (o non sempre) una giustificazione, un motivo, un lieto fine….ma una trama che ci protegge dal vivere una vita senza senso. Per ogni effetto una causa, per ogni frangente una soluzione….. ad ogni serratura la sua chiave…e siamo tutti connessi all’umanita in modi a noi sconosciuti in un domino di causa ed effetto.

La citazione:

Werner dice: “Sei molto coraggiosa”.
Lei abbassa il secchio. “Come ti chiami?”
Glielo dice; lei risponde: “Quando ho perso la vista, Werner, mi hanno detto che ero coraggiosa. Quando se n’è andato mio padre, mi hanno detto che ero coraggiosa. Ma il mio non è coraggio; non ho scelta. Mi sveglio e vivo la mia vita. Tu non fai lo stesso?”

martedì

In viaggio contromano, Di Michael Zadoorian

Mark Twain: “Tra vent’anni sarete più delusi per le cose che non avete fatto che per quelle che avete fatto. Quindi mollate le cime. Allontanatevi dal porto sicuro. Prendete con le vostre vele i venti. Esplorate. Sognate. Scoprite.”

Questo libro è tante cose, è un viaggio, il viaggio di una vita ed il viaggio della vita, è un racconto brillante, allegro, ma anche drammatico, è una storia d’amore, la storia di Ella malata di tumore, e John, malato di Alzheimer. E’ la storia di due ottantenni che hanno tutte le miserie della vecchiaia, se la fanno addosso, quando cadono non sanno rialzarsi, sono riottosi, stanchi e ripetitivi, eppure commuovono e appassionano perché profondamente umani.
Ella piu di John e’ un personaggio che ho amato, ammirato, una donna fantastica, combattiva, simpatica e caparbia, capace di non perdersi mai d’animo, un paradosso vivente di fragilità fisica e possente determinazione. 
Hanno deciso di concedersi un ultimo viaggio insieme, in memoria dei vecchi tempi da giovani camperisti ma anche per concludere la loro vita, sempre insieme, rifiutando un finale scritto. Sono due persone semplici, nessuna vergogna nel confessare che Disneyland per loro è una meta importante: ci sono stati con i figli quando erano bambini, ci vogliono tornare adesso che sono quasi bisnonni, pieni di acciacchi infernali. E cosi Ella molla la chemio, sorvola sui rischi dell’Alzheimer del marito e si parte, si mollano le cime: “Alla nostra età nessuno apprezza la leggerezza, proprio quando ce ne sarebbe più bisogno”.
Attraversare l’America seguendo la storica Route 66, Illinois, Missouri, Oklahoma, Texas, New Mexico, California, un viaggio solo loro due, il camper, le loro malattie e le loro diapositive proiettate su un lenzuolo bianco, tenera imagine di due esseri che riguardano cinquant’anni di quotidianità, viaggi, vacanze, lavoro, pasti, figli, decisioni su mutui, scuole, college, debiti, carrier; il passato come trampolino per il presente e viatico per il futuro.
Tantissimi incontri nascono on the road, Ella e John si imbatteranno per strada con hippies che brindano con i nostri nonnini, criminali che tentano di derubarli, ragazzini già alle prese con una figlia da accudire, camerieri, impiegati d’albergo, benzinai… e cosi alle numerose diapositive portate con sé si aggiungeranno tanti altri fotogrammi, nuovi scatti consumati via via per strada, utili quasi a cercare disperatamente ma anche con dignità e coscienza, di fermare il tempo.
Un viaggio pieno di amore, avvenimenti buffi, teneri, drammatici, con l’amore che li tiene in vita, sempre, anche quando le cose sembrano precipitare; la voglia di scoprire, di non arrendersi, di combattere, di non gettare la spugna, attraverso numerosi ostacoli, sgretolando il senso comune e canoniche norme del vivere. La loro non è una fuga disperata, dettata dalla folle paura della morte che si intende evitare a tutti i costi, il loro è il saldo desiderio di restare insieme, fortemente uniti, di dimostrarsi ancora cio’ che fin da ragazzi non hanno mai smesso di concedersi:  amore incondizionato, grande attenzione l’uno per l’altro, forte indipendenza dagli altri, mano nella mano, tante risate, il capirsi al volo senza l’utilizzo delle parole.  La dimostrazione piu’ grande di potercela fare INSIEME, liberi di decidere la strada da percorrere. Perché, forse, l’unica vera, grande, terribile paura, è una sola: quella di rimanere soli, senza l’altro, senza l’altra.

La citazione:

"E’ questo che mi piace delle vacanze. Tutto rallenta. Vivi tante esperienze in poco tempo. Perdi il conto dei giorni. Il tempo rallenta come in sogno. Quanto al tempo che trascorre tra una vacanza e l’altra, è tutto un altro paio di maniche. E’ come se trascorresse in apnea, un mormorio prolungato di giorni, mesi, anni, decenni.” “Ce ne stiamo seduti nel camper a bere succo, mangiare uva e salatini al formaggio. È una bizzarra sensazione, non so se vada tanto bene, ma non ho nessuna voglia di avventurarmi sul retro e cercare qualcosa di più nutriente. Sono già abbastanza felice di avere appetito. L’uva è saporita, scura e succosa; e mi metto un tovagliolo di carta attorno al collo. Nessuno di noi parla. John di tanto in tanto si limita ad emettere un grugnito compiaciuto. È bello, così, è bello tacere. Parlare rovinerebbe tutto Per un attimo, potrei piangere dalla felicità. È per momenti come questo che amo tanto viaggiare, la ragione per cui ho sfidato tutti. Noi due insieme, come siamo sempre stati, senza parlare, senza fare niente di speciale, semplicemente in vacanza"

lunedì

La breve favolosa vita di Oscar Wao, di Junot Diaz

Ci sono storie che andrebbero lette non perche’ siano meravigliose, ne per l’accattivante stile con il quale sono descritte, ne perche’ ci illuminano su un pezzo del nostro passato da non dimenticare, ma vanno lette perche sono storie dense, colorate, vive, come puo esserlo il dolore, la rabbia, l’amore.  Le vicende della famiglia Cabral fanno parte di questo tipo di storie.
Di meraviglioso la vita di Oscar Wao ha infatti ben poco, il suo intero albero genealogico, come quello di altre migliaia di dominicani, è composto da figure torturate, espropriate, martirizzate. Oscar e’ lontanissimo dallo stereotipo del domenicano tutto merengue e muscoli guizzanti, un personaggio che non si dimentica facilmente, con i suoi 120 kg, l’amore per i libri, per la fantascienza e i giochi di ruolo, con i continui riferimenti al Signore degli Anelli, con i “punti carisma” assegnati alle donne piu’ belle, l’ossessione per l’amore e la paura di morire vergine. Forse e’ solo un angelo obeso, mite e spaventato, persino un po’ sciocco.  Le sue origini dominicane ne fanno il rappresentante di una delle tante facce dell'America in cui le tradizioni e le credenze di famiglia si intrecciano con i miti locali, dando vita ad una cultura multiforme che erompe dalle pagine di Junot Diaz con una parlata che include termini spagnoli e giapponesi, senza dimenticare i numerosi riferimenti al mondo nerd. E’ stato curioso aver letto questo libro dopo “L'interprete dei malanni”, di Jhumpa Lahiri, un altro romanzo di assimilazione, un’altra cronaca frammentata dell’ambivalente e inesorabile movimento dei figli degli immigrati verso una middle class che garantisca sicurezza ed agiatezza.
Ma e’ anche la storia di Santo Domingo, "la Ground Zero del Nuovo Mondo", oppressa per trent'anni dal dittatore erotomane e sanguinario Rafael Trujillo e patria del fukù, la maledizione che perseguita chiunque si azzardi a fare qualcosa contro la Repubblica Domenicana (perché, pensavate davvero che a sparare a John Fitzgerald Kennedy fossero stati un cecchino, la mafia, gli alieni, la CIA o il fantasma di Marylin Monroe? E’ stato il fukù dopo che JFK nel 1961 tramò per far assassinare Trujillo).
E quindi un consiglio a tutti: arrivati all'ultima pagina urlate un liberatorio “Zafa!” per onorare le gesta del grande Oscar Wao! 

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 La citazione: 

Dicono che sia venuto dall’Africa, racchiuso nelle grida degli schiavi; che fosse l’anatema finale degli indiani Taino, pronunciato mentre un mondo moriva e un altro nasceva; o che fosse un demone, penetrato nella Creazione attraverso la porta dell’incubo dischiusa alle Antille. Fukù americanus, o più colloquialmente fukù: usato in genere per indicare qualche tipo di maledizione o sventura, e in particolare la Maledizione e la Sventura del Nuovo Mondo…

giovedì

Lacci, di Domenico Starnone


Cosa succede in una relazione quando si provano a reprimere le pulsioni vitali che arrivano dall’esterno? A quali compromessi bisogna scendere per ritrovare l’armonia? Quale memoria si conserva di un matrimonio sopravvissuto alla rottura? Quante narrazioni parallele vivono dentro il flusso uniforme dell’esistenza trascorsa sotto un medesimo tetto? Cosa vuol dire essere famiglia, essere madre e padre? Quale significato dare, oggi, alla parola responsabilità?

Il romanzo di Domenico Starnone costruisce un edificio che dà spazio a questi dubbi, e lo fa adottando diversi registri per produrre la spietata radiografia di un matrimonio distrutto dalle devastanti conseguenze di una relazione extraconiugale, delle ferite inferte e dell’impossibilità di suturarle con il perdono.

 Si inizia con la voce è Vanda, la moglie, con le sue lettere, con la furia e la lucidità di una donna ferita ma combattiva, feroce quasi.  Poi saltiamo al 2014, trentasei anni più tardi, e a prendere la parola è Aldo, il marito, già vecchio, fintamente svagato, sottilmente vile, con una prosa che si distende in una malinconia asciutta; la distanza di tempo e di prospettiva disorienta il passo di lettura, trasformando il libro da romanzo epistolare di una crisi a romanzo sulla rappresentazione di un matrimonio.  Infine arriviamo ai capitoli di Anna, la figlia minore, con i suoi rancori, fantasmi, la fame mai sopita di amore trasformata in avidità e bulimia. Sandro e Anna nella terza parte trovano il modo di raccontarsi quello che avevano vissuto senza poterlo mai dire: «I nostri genitori ci hanno rovinati. Si sono insediati nelle nostre teste, qualsiasi cosa diciamo o facciamo continuiamo a obbedire a loro». I lacci sono anche loro, i figli, usati per garantire il legame matrimoniale e ricomporre la famiglia, per far poggiare la tranquillità della casa sulle fondamenta sicure dell’ambiguità.

È un romanzo serio, perché con serietà e delicatezza vanno affrontati dei legami affettivi che stringono le persone per la vita, tra marito e moglie, tra genitori e figli. È significativo l'aver affidato l'ultima sezione del romanzo alle voci dei due figli della coppia, proprio perché hanno vissuto di riflesso il contrasto e la riunione dei genitori, possono fornirne una visione del tutto nuova e più profonda. Il finale, inaspettato, completa il romanzo perfezionando quel senso di amarezza che delicatamente increspa tutta la narrazione.

Potreste leggere nella storia lo specchio di una realtà che ti colpisce con la forza della sua normalità, potreste sentirvi coinvolti per esperienza personale, potreste anche essere infastiditi da stereotipi per voi crudeli. Comunque non troverete spazio per l'indifferenza. Unico appunto, non mi sento di consigliarne la lettura ai giovanissimi perché troppo disincantanto, troppo vissuto, forse troppo reale, ma anche troppo negativo con il suo fardello di ideali disattesi e di cattiverie talvolta inconsapevoli e talvolta meditate. E' un libro degli anta, dove chi ha già alle spalle un po' di vita può ritrovarsi in parte nei personaggi, nelle loro aspirazioni, nelle loro meschine fragilità, nella loro vigliaccheria del lasciar correre la vita su un binario morto.
 
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martedì

Il gioco di Gerald, di Stephen King

Nessun dubbio sulla capacità di narrazione di King: un solo personaggio, una sola stanza, un arco temporale ininterrotto di neppure trenta ore. Basterebbe un racconto di sole 20 pagine per descrivere l'accaduto, invece incredibilmente King dà vita a un dialogo folle, e solo apparentemente irrazionale, fra diverse parti del subconscio di Jessie, la quale ripercorre episodi che hanno segnato la sua vita da quando era bambina. Un libro sui giochi perfidi di una mente ottenebrata, ai confini della follia, in atmosfere sottilmente surreali, insidiosi flashback che si intrecciano con un il dolore fisico della protagonista, i suoi fantasmi, le visioni, la fame e la sete, l'oscura presenza di un uomo nell'angolo che non muove un muscolo per salvarla.  Tutto e’ costruito per legarvi alle vicende di Jessie, la Brava Mogliettina Burlingame, della femminista mezza matta Ruth, del Frugolino del papa, che poi sono tutte la stessa donna.
Non una storia d’orrore ma comunque estremamente angosciante. Purtroppo in certe parti si è quasi tentati di sbirciare qualche pagina più avanti per vedere cosa sta per succedere, si ha voglia di saltare quelle descrizioni dei malesseri che sembrano essere copia fedele di un'enciclopedia medica. A tratti quindi l'immedesimazione è difficile, le lettura non faticosa ma neppure entusiasmante. Ma solo a tratti. La lettura di questo libro somiglia a un incubo dal quale si vorrebbe subito uscire ma è necessario arrivare fino in fondo per potersi risvegliare e, come se non bastasse, anche il finale riserva qualche interessante passaggio macabro e cruento.
Particolarmente apprezzabile il cross over con il romanzo subito successivo, “Dolores Claiborne”, con lei bambina che si rintana nella stanza e “vede” Dolores (come Dolores “vedrà” Jessie nel libro successivo).

L'interprete dei malanni, di Jhumpa Lahiri


Un tema dominante: l'urgenza di tenere viva la propria identità in un contesto sociale e culturale diverso da quello originale.

Dei protagonisti spesso giovani, a “rischio” maggiore di una assimilazione tout court alla nuova, travolgente realtà. Uomini e donne travagliati e tormentati dalla quotidianità del loro vivere, da sentimenti e rapporti stanchi o da passioni brucianti che si estinguono con altrettanta rapidità. Rapporti amorosi, ma anche esperienze di lavoro e di vita, ricchezza, benessere, ma anche esclusione e povertà. L'abito, il cibo, il trucco, la lingua… a documentare le radici culturali diverse, a volte da rinnegare, a volte da riscoprire, a volte costretti a rispettare, spesso amate. I racconti sono toccanti, speciali, aiutano ad aprire uno spiraglio sulle acrobazie che si e’ chiamati a fare lontani da cio che il nostro cuore chiama casa.

Quando siete felici, fateci caso, Di Kurt Vonnegut


L’Università non è come la scuola, che se non ci esci da solo prima o poi ti cacciano. Potenzialmente all’Università puoi esserci di casa. Per ciò questo libro non parla ad una fascia d’età ma ad una categoria di persone, quelle pronte ma che non sanno di esserlo, quelle che pensano di aver appena finito qualcosa ma non sanno di essere solo all’inizio di tutto. Ed e’ proprio per questo “inizio” che i nove commencement speeches di Kurt Vonnegut sono stati concepiti, irriverenti, divertenti, teneri, sferzanti, piccoli gioielli pieni di humour e amore per la vita e per il prossimo. Perche’, diciamocelo, alzi la mano chi non è stato ispirato o reso entusiasta almeno una volta da uno degli insegnanti, dei professori, dei colleghi di lavoro che ha avuto lungo la propria esistenza. Chi di noi non ha mai incontrato almeno una una persona che ci ha letteralmente toccato l’anima, che ci ha spronato, che ci ha sospinto a essere migliori, a tirare fuori il meglio di noi. In questo libro non ci sono state tante formule magiche. Kurt Vonnegut rifugge le ricette facili per il successo planetario. Non ci sono uomini emaciati con il dolcevita nero che raccontano come dobbiamo "stay hungry, stay foolish" e unire i puntini e tutto andrà bene e il futuro si dispiegherà pieno di colore di fronte a noi. Cio nonostante, o proprio per questo, e’ un libro delizioso da assaporare come il cono di gelato disegnato in copertina, per finire con la soddisfazione di farsi la domanda che dà il titolo all'originale: If This Isn't Nice, What Is? Cosa c'è di più bello di questo? Perche’qualunque giornata puo’ racchiudere un istante di cui sottolineare la piacevolezza. Non i grandi trionfi ma le piccole soddisfazioni quotidiane.
E’ un elogio della semplicità, della felicità, delle piccole cose che possono cambiare il mondo. Ma non tutto il mondo, Kurt Vonnegut non è così presuntuoso, possono cambiare il nostro piccolo mondo e renderlo un posto migliore. Come?
Credendo nelle proprie passioni, non tanto per vederle realizzate, quanto per formare la propria anima. Sforzandosi di essere gentili, buoni ed onesti, perché l’odio ha creato solo distruzione.
Imparando ad amare e non abbandonare mai i libri e lo studio, perché potranno essere dei grandi compagni per la vita.
Facendo l’amore ogni volta che possiamo. Perche’ ci fa bene.

Come vedete Kurt Vonnegut non ci mette retorica, ma tanto umorismo, tanta ironia e autoironia. C’è onestà, c’è realtà, c’è passione;
Vonnegut, ateo e umanista, cita spesso e volentieri Gesù e il suo Discorso della Montagna, d’altronde “Se le cose che Gesù ha detto erano giuste, e in buona parte anche bellissime, che differenza fa se era Dio oppure no?”. Propugna una bontà basata non su presunte ricompense divine ma sulla volontà, pura e semplice, di essere persone “misericordiose e capaci” nel corso della nostra vita per star meglio con noi stessi e in mezzo agli altri.

Gustatevi questo libro come gustereste un gelato in una calda giornata estiva. Ne vale la pena.

La citazione: “un marito, una moglie e qualche figlio non fanno una famiglia, così come una Diet Pepsi e tre Oreo non fanno una colazione”