Cosa succede in una relazione quando si provano a reprimere
le pulsioni vitali che arrivano dall’esterno? A quali compromessi bisogna scendere
per ritrovare l’armonia? Quale memoria si conserva di un matrimonio
sopravvissuto alla rottura? Quante narrazioni parallele vivono dentro il flusso
uniforme dell’esistenza trascorsa sotto un medesimo tetto? Cosa vuol dire
essere famiglia, essere madre e padre? Quale significato dare, oggi, alla
parola responsabilità?
Il romanzo di Domenico Starnone costruisce un edificio che
dà spazio a questi dubbi, e lo fa adottando diversi registri per produrre la
spietata radiografia di un matrimonio distrutto dalle devastanti conseguenze di
una relazione extraconiugale, delle ferite inferte e dell’impossibilità di
suturarle con il perdono.
Si inizia con la voce
è Vanda, la moglie, con le sue lettere, con la furia e la lucidità di una donna
ferita ma combattiva, feroce quasi. Poi
saltiamo al 2014, trentasei anni più tardi, e a prendere la parola è Aldo, il
marito, già vecchio, fintamente svagato, sottilmente vile, con una prosa che si
distende in una malinconia asciutta; la distanza di tempo e di prospettiva
disorienta il passo di lettura, trasformando il libro da romanzo epistolare di
una crisi a romanzo sulla rappresentazione di un matrimonio. Infine arriviamo ai capitoli di Anna, la
figlia minore, con i suoi rancori, fantasmi, la fame mai sopita di amore
trasformata in avidità e bulimia. Sandro e Anna nella terza parte trovano il
modo di raccontarsi quello che avevano vissuto senza poterlo mai dire: «I
nostri genitori ci hanno rovinati. Si sono insediati nelle nostre teste,
qualsiasi cosa diciamo o facciamo continuiamo a obbedire a loro». I lacci sono
anche loro, i figli, usati per garantire il legame matrimoniale e ricomporre la
famiglia, per far poggiare la tranquillità della casa sulle fondamenta sicure
dell’ambiguità.
È un romanzo serio, perché con serietà e delicatezza vanno
affrontati dei legami affettivi che stringono le persone per la vita, tra
marito e moglie, tra genitori e figli. È significativo l'aver affidato l'ultima
sezione del romanzo alle voci dei due figli della coppia, proprio perché hanno
vissuto di riflesso il contrasto e la riunione dei genitori, possono fornirne
una visione del tutto nuova e più profonda. Il finale, inaspettato, completa il
romanzo perfezionando quel senso di amarezza che delicatamente increspa tutta
la narrazione.
Potreste leggere nella storia lo specchio di una realtà che
ti colpisce con la forza della sua normalità, potreste sentirvi coinvolti per
esperienza personale, potreste anche essere infastiditi da stereotipi per voi
crudeli. Comunque non troverete spazio per l'indifferenza. Unico appunto, non
mi sento di consigliarne la lettura ai giovanissimi perché troppo
disincantanto, troppo vissuto, forse troppo reale, ma anche troppo negativo con
il suo fardello di ideali disattesi e di cattiverie talvolta inconsapevoli e
talvolta meditate. E' un libro degli anta, dove chi ha già alle spalle un po'
di vita può ritrovarsi in parte nei personaggi, nelle loro aspirazioni, nelle
loro meschine fragilità, nella loro vigliaccheria del lasciar correre la vita
su un binario morto.
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