Uno sguardo sulle mie letture

Uno sguardo sulle mie letture

venerdì

Il grande Gatsby, di Francis Scott Fitzgerald


By Francis Scott Fitzgerald: «L’idea di base di Gatsby è l’ingiustizia di un povero giovane che non può sposare una ragazza coi soldi».
Tutto e nulla in questa frase, perché ad una storia semplice e comune é associata...una composizione di parole suonate con rara maestria. Il tratteggio dei personaggi, la descrizione dell’America della Jazz Age, lo svelarsi di un sentimento attraverso frasi spezzate, esclamazioni sguardi e silenzi, la melanconia umana, tutto questo é presente in questa narrazione, e soprattutto é descritto con una prosa succinta, elegante ed energica. Ci sono le feste, quelle grandi, perché in quelle piccole non c’é intimitá, dove «uomini e donne andavano e venivano come falene fra bisbigli e champagne e stelle», dove mille solitudini s’incontrano e non comunicano tra risa e cicalecci, costellate da «frasi di convenienza e di presentazioni subito dimenticate e di incontri entusiastici tra donne che non si conoscevano neanche di nome». Ci sono i protagonisti, disorientati innanzi alla progressiva consapevolezza della pochezza della loro vita. C’é la storia d’amore di Jay Gatsby «immensamente consapevole della gioventù e del mistero che la ricchezza imprigiona e preserva, della freschezza di tanti vestiti, e di Daisy, scintillante come argento, tronfia e sicura, al disopra delle lotte infuocate dei poveri». Ricchezza e bellezza, perché la voce di Daisy era «bassa e conturbante...il tipo di voce che l’orecchio segue in tutte le modulazioni come se ogni parola fosse un raggruppamento di note che non verrá mai ripetuto...un invito modulato, un Ascoltami biascicato, che prometteva per l’ora seguente cose gaie ed interessanti come quelle vissute un minuto prima». Cé Tom Buchanan che in ogni sua discussione pareva sottintendere «non credere che il mio parere sia definitivo in questa faccenda soltanto perché sono piú forte e piú in gamba di te». «Erano gente sbadata, Tom e Daisy: sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia sbadataggine o in ció che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettesse a posto il pasticcio che avevano fatto...». E poi c’è Nick Carradine, il vero protagonista del romanzo, che è il modello di tutti i solitari che restano ai margini delle storie, pur essendo gli unici a comprenderle nella loro complessitá. Nick, che dell’amico morto ricorda il «nefando pulviscolo che si trascinava al seguito dei suoi sogni», quel suo pretendere di far rivivere, sulla base di un ricordo, l’amore con una donna di un mondo superiore al suo, e porlo come unico scopo della sua stessa vita.  Povero Gatzby, oscuro avventuriero alla ricerca di un personale posto al sole nel sogno americano, se avesse potuto presenziare al proprio funerale forse si sarebbe svegliato da questa illusione, ma non é sempre facile rinunciare al nostro passato, ed alla sua inconscia rivisitazione,  e «Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».
 Quando chiudi le pagine del libro stai pensando ancora a Gatzby, in piedi sul prato della sua villa che guarda la baia di Long Island, mentre fissa le dune verdi del giardino di Daisy, la donna che non potrà mai più riavere. Lo pensi come un uomo proteso verso qualcosa di desiderato, immaginato, sognato, ma impossibile da raggiungere; lo pensi così come a volte, più di quanto non vogliamo, pensiamo a noi stessi.
Leggetelo, la sola bellezza della scrittura lo merita.

giovedì

Se questo è un uomo, di Primo Levi


Non rileggevo da tempo questo libro, probabilmente da più di 10 anni. Già allora, mi aveva fortemente colpito.  L'ho ripreso in mano e finito due settimane fa, anche se non lo si può definire una lettura da ombrellone, ma era il periodo in cui potevo tenere più a lungo gli occhi su un libro, senza continue interruzioni. Ritengo infatti che questo volume mal si presti ad una lettura a singhiozzo. Andrebbe forse letto tutto d'un fiato, prendendosi un giorno libero per farlo. Credo che sarebbe una giornata spesa bene!
Mi ci é voluto tempo per sedermi e provare a descrivere il dramma umano quivi raccontato, perché é talmente orribile, da percepire l’impossibilitá di comprenderlo appieno. Attraverso un linguaggio pacato, sobrio e assolutamente moderno ci si rende conto che chi non ha provato questa esperienza sulla propria pelle si può fermare ad una intuizione, allo sdegno, alla commiserazione, ma il sapere è un’altra cosa, inesplicabile. L'asciuttezza deliberata e scarna della cronaca potrebbe non coinvolgere ad una prima lettura...ma é veramente possibile rimanere impassibili di fronte alla negazione  della pietà, dell'amicizia, della dignitá, della religione, degli ideali, del futuro, rimanendo soli con il dramma nella sua crudeltà? Ogni capitolo, ogni pagina, ogni riga od ogni parola è una coltellata alla dignitá che si deve ad ogni uomo. E sorprende il fatto che nonostante tutto il dolore non si trovino nel testo parole di puro disprezzo o di astio nei confronti dei nazisti. Questo fu giustificato dall'autore stesso come un modo grazie al quale ognuno si può creare un proprio parere avendo a disposizione l'oggettività dei fatti presentati da un testimone razionale. Non ho un parere, il mio é piú un appello: Solo e unicamente far in modo che non esistano più orrori simili:
«Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro il nome, qualcosa di noi, di noi quali eravamo, rimanga»
«Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspetteremo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente.»
«Tale sarà la nostra vita. Ogni giorno, secondo il ritmo prestabilito, uscire e rientrare; lavorare, dormire e mangiare; ammalarsi, guarire, morire.»
Come si si é potuti arrivare a tanto? Probabilmente poco alla volta! Prima ti spiegano che é diverso, poi che é cattivo, infine che non é niente. Da’ltronde un tempo ci insegnavano ad odiare il lontano diverso (il comunista russo, che dissacra la nostra religione e mangia i bambini), poi lo straniero che si é avvicinato (ti vuol prendere il lavoro, vuole violentare le nostre donne, rubare nelle nostre case), poi diventa l’altro italiano (vive delle tue tasse, nell’agiatezza e senza lavorare), e cosí passo per passo arriviamo ad odiare il collega, il vicino, l’amico. A mano a mano che il nostro cuore diventa piú piccolo si restringe la cerchia del NOI a favore di quella degli ALTRI.  
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.

mercoledì

Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie


“10 piccoli indiani”, o “10 piccoli negretti”? Forse meglio .. “and then there were none/e nessuno ne restò”. Poco importa, perché la canzone “Ten Little Nigger Boys” (del 1868, con evidenti richiami dispregiativi e razzistici per i neri liberati) scandirá comunque i passi della morte in un bel giallo firmato Agatha Christie.
Una canzone, ma due possibili finali «He got married and then there were none» o «He went out and hanged himself and then there were none», uno usato nel giallo e l’altro, decisamente piu’ ottimista, scelto dalla Christie per la sua trasposizione teatrale. Protagonisti in entrambi i casi un gruppo di....rei non confessi:
«in quel silenzio si udì la Voce. Improvvisa, inumana, penetrante – Signore e signori! Prego, silenzio! Tutti sussultarono. Si guardarono attorno, si fissarono l’un l’altro, scrutarono le pareti. Chi parlava? La Voce continuò. Una voce alta e chiara. – Siete imputati delle seguenti colpe…».
Sullo sfondo della vicenda la sinistra filastrocca, la cui musicalità quasi bambinesca contrasta con il triste presagio che reca con sè. Un giallo, in cui manca il tipico personaggio dell'investigatore ad aiutare il lettore a risolvere il caso: nessuna Miss Marple a cui aggrapparsi nei momenti bui, nessun Poirot dal quale farsi spiegare con un certo sollievo il come e il perchè del delitto...niente di niente! L'indagine sulle morti avvenute sull'isola è lasciata ad esclusivo appannaggio dei personaggi stessi, i quali, ciascuno con la propria indole e le proprie debolezze, formulano tesi ora sull'uno ora sull'altro. Questo meccanismo rende possibile una completa assimilazione tra il lettore ed i personaggi, a tutto beneficio della lettura che risulta brillante ed estremamente scorrevole. Per tutti e dieci è stato predisposto un paniere di statuine in porcellana raffigurante dieci piccoli negretti, ad ogni omicidio una statuina di porcellana viene rotta…da chi? Da UNO? Da UN Owen/Unknown?  Da uno sconosciuto? Peggio, da un assassino travestito da vittima, da uno di loro ; e cosí i superstiti di volta in volta assumono le vesti di investigatore, sospetto e prossima vittima, e la propria innocenza può essere mostrata solo con la morte, troppo tardi.
 Ma allora la sequenza delle morti non dovrebbe lasciare adito ad alcun dubbio…l’ultimo negretto e’ l’assassino; giá, non dovrebbe, ma si è infranta l'ultima statuina, si proprio l’ultima, «e nessuno ne restò».
Libro consigliatissimo per questo periodo estivo, mi ha saputo regalare infatti ben più di un isolato brivido, talmente perfetto da dover aspettare la confessione dell'assassino per comprendere come sia stato possibile realizzare una tale crimine.
Vorrei raccontarvi il finale teatrale/Hollywoodiano, ma non posso farlo senza tradire il finale del libro, e perdonatemi, farlo e’ un peccato capitale. Ma per gli amanti del lieto fine ve ne segnalo l’esistenza, se la stessa Aghata lo ha avallato non e’ certo un peccato preferirlo:
Dieci Piccoli Indiani, di René Clair, 20th Century Fox, Usa, 1945, 106 minuti in bianco e nero.

« Non dico che sia il lavoro che preferisco, (...) ma credo però che, sul piano tecnico, sia la cosa migliore che ho scritto. », firmato: Agatha Christie

La Frase: «Il vecchio indugiò un momento prima di scendere. Alzò solennemente una mano e ammiccò con gli occhi cisposi. – State all’erta e pregate – disse – State all’erta e pregate. Il giorno del giudizio è vicino…. Il giorno del giudizio è molto vicino»

giovedì

Il nome della rosa, di Umberto Eco

Anno di grazia 1327.

E’ questo libro un accurato saggio storico? Ricco com’e’ di descrizioni sulla diffusione di tanti
ordini monastici e movimenti ereticali, sullo spostamento della sede papale da Roma ad Avignone, sui difficili rapporti tra Papato e Impero, sui processi dell’inquisizione e le condanne al rogo degli eretici fatte da una cristianità in crisi. O forse e’ un saggio sull'architettura e usi nel Medioevo, visto che con indescrivibile rigore e precisione sono descritti luoghi, paesaggi, architetture e bassorilievi. Forse piu’ semplicemente e’ un libro di libri, innumerevoli infatti sono le citazioni di altre opere...”Si fanno libri solo su altri libri e intorno ad altri libri. I libri parlano sempre di altri libri e ogni storia racconta una storia già raccontata". E’ tutto questo e molto altro; io preferisco vederlo soprattutto come trattato di semiologia, e’ "la parola" infatti il tema dominante, annunciato fin dalla frase introduttiva del romanzo: "In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio", con la sua forza, i suoi limiti e l'uso negativo o positivo che l'uomo può farne.

In questo contesto la ricca, misteriosa ed inaccessibile biblioteca benedettina e’ simbolo da un lato del fascino della cultura, dall'altro dell'enorme pericolosità in essa insita a causa del peccato d'intelletto, a causa della "lussuria della parola". Non e’ un caso d’altronde che a chiosare questo libro si ritorna immediatamente all'inizio, al titolo stesso dell'opera, con un verso:

Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus

La rosa primigenia [ormai] esiste [soltanto] in quanto nome: noi possediamo nudi nomi.

Ovvero delle cose noi non possiamo cogliere l'essenza, solo conoscerne i nomi.... L'alone di mistero che ha fino alla fine avvolto questo titolo improvvisamente si dissolve. La narrazione dell'indagine che attraversa il libro è allora la metafora della ricerca filosofica di una verità sempre sfuggente, in un mondo in cui ci si ferma solo all'aspetto esteriore delle cose, il loro nome, che pertanto non ci consente di comprendere la loro essenza reale. È un ammonimento o una constatazione di uno stato di fatto? Forse entrambi, un messaggio che chi spinge a riflettere affinché non si presuma essere depositari di verità assolute, in quanto queste saranno sempre contestabili, se non addirittura risibili.

Un inno alla ricerca della conoscenza, una celebrazione dell'innato desiderio di sapere dell'uomo e del suo terribile potere distruttivo quando esso viene in qualche modo imbrigliato. E la risoluzione del mistero alla fine ha connotati così beffardi sia nelle modalità in cui il mistero è stato risolto (Guglielmo arriva alla giusta soluzione passando dalla strada sbagliata) sia nelle sue conseguenze, tali da far dubitare che si tratti di un vero successo. Tutto è ambiguo, inafferabile, la verità si confonde con la menzogna e la vittoria ha l'amaro sapore della sconfitta. La verita’ svelata non dissipa i vari interrogativi: puo’ l’opulenza papale (di allora?) coniugarsi con il ritorno alla nuda povertà predicato dai francescani? E’ blasfemo ritenere che Gesù ridesse?

E’ vero che talvolta il romanzo risulta molto complesso, anche per la presenza di arcaismi, frasi interamente in latino, sen non addirittura in dialetto tedesco, e il ricorso ad un linguaggio molto, a tratti forse troppo erudito. Ma e’ indubbiamente un bel libro, da applauso la trama del romanzo, la narrazione presenta una straordinaria cura per il dettaglio, il modus scrivendi del libro è assolutamente ricercato.

Eco ha dichiarato ogni lettore troverà ne "Il nome della rosa" qualcosa di diverso a seconda della propria indole e delle proprie conoscenze. in questo senso va anche letta la scelta del titolo, sufficientemente ambiguo da evitare che il romanzo finisse incanalato in una classificazione di genere netta ma priva di significato e che il lettore iniziasse la lettura con già dei pregiudizi sulla natura dell'opera, magari spinto da una curiosita botanica!

domenica

Anna Karenina di Lev N. Tolstoj

Ultimamente mi sento un po…gemelli, un po  Càstore e un po Pollùce, un po Arnold Schwarzenegger (poco), e un po Danny DeVito (tanto). Chiaramente la mia lettura di Anna Karenina, ne ha risentito. E con questa dicotomia da lettore mi sono immerso nella vita della bellissima ed aristocratica Anna
«l' animazione trattenuta che balenava sul volto di lei e svolazzava tra gli occhi scintillanti e il sorriso appena percettibile , che incurvava le sue labbra vermiglie. Come se un’abbondanza di qualcosa colmasse talmente il suo essere , da esprimersi all' infuori della sua volontà ora nello scintillio dello sguardo , ora nel sorriso»
Sono partito per un viaggio alla scoperta della storia della donna che ha sfidato le regole, i precetti, le abitudini del suo tempo, combattuta tra la fedeltà imposta dal sacro vincolo del matrimonio e la passione struggente per un uomo molto più giovane di lei. Ho provato a sentire questo vento rivoluzionario che ha imperversato in un'epoca ottocentesca regnata da omologazione e ristrettezza sentimentale. Ho seguito trepidante l’inizio della tragica passione per il brillante Vronskij «“Perchè siete in viaggio?” disse, lasciando cadere la mano che stava per aggrapparsi alla colonnina. E sul suo viso splendevano l'animazione e una gioia incontenibile. “Perchè sono in viaggio?” ripeté egli, guardandola proprio negli occhi. “Voi lo sapete, io sono in viaggio per essere dove siete voi- disse- non posso fare altrimenti». La stella emergente della società russa Vronskij, che non riesce più a staccarsi da Anna perchè «Riconosceva solo a se stesso l'indubitabile diritto di amare lei».
Ho letto nelle tante coppie descritte la lotta tra il valore di una promessa d’amore e la forza travolgente della passione «È una cosa celeste, quando ho vinto / le mie brame terrene; / quando però non m'è riuscito, / ne ho pur avuto un gran bel piacere!».
 E fra questi dilemmi, le lotte di queste famiglie per la sopravvivenza «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo» governate da leggi indiscutibili «Per intraprendere qualcosa nella vita familiare, sono indispensabili o un completo dissidio fra i coniugi o un amorevole accordo. Quando invece i rapporti fra i coniugi sono indefiniti e non c'è né l'uno né l'altro, nulla può essere intrapreso».
Con uguale buona predisposizione ho fatta mia la storia dell'amore pulito tra Levin e Kitti, iniziata cosi romanticamente «quello che in lei lo coglieva sempre di sorpresa era l'espressione degli occhi, miti, tranquilli e sinceri, e in particolare il suo sorriso, che trasportava sempre Levin in un mondo incantato, dove lui si sentiva ingentilito e intenerito, come poteva ricordare di essere lui stesso in rari giorni della sua prima infanzia».
Penso di aver fatto tutto bene, ma mi sono ugualmente perso.  Questa narrativa russa non mi appassiona, innanzitutto è lunga, troppo lunga, altro che vecchi falsi stereotipi, sarà colpa dell'inverno, dovranno stare troppo tempo in casa per colpa del clima rigido ed allora si mettono a scrivere. Eppure a giudicare dalla superficiale conoscenza delle poche donne russe incrociate nella mia vita direi che alternative piacevoli alla scrittura ci sono anche d'inverno. Pensate che il De Vito in me tifava spudoratamente per Vronskij, che ha sacrificato una brillante carriera militare, ha cercato di tranquillizzare molte delle seghe mentali di Anna, e alla fine ne esce come unico colpevole, e quando già speravo che ricominciasse a vivere egli piuttosto va a farsi nobilmente ammazzare dai turchi.
E che dire dell’altra coppia,, Kitty, che dopo aver sbroccato per l’uomo sbagliato invece di andare a chiedere scusa al suo uomo va a fare la crocerossina in un centro termale in Germania, esattamente il posto e l'attività divertente che ci vogliono per una giovinetta in crisi. E quel povero Levin? La sposa e va a vivere nella sua campagna, ma per far nascere il bambino non si può mica stare li, è plus chic andare a Mosca e dissanguarsi economicamente. Meno male che al ritorno in campagna si è allietati dalla visita di parenti parassiti e di intellettuali strambi. E ci credo che in questo clima a furia di filosofiche letture e di colti ragionamenti, si distende sul prato e scopre la religione. Che, bisogna ammetterlo, dopo non so più quante pagine passate a parlare della mietitura del fieno nella campagna russa del XIX secolo, della forza lavoro e del socialismo, è pur sempre un bel miglioramento...
Scusate, non volevo essere irriverente, ma leggo tutti i commenti a questo libro come se fosse il massimo dei capolavori, ed io, che sicuramente sono l’ultimo degli ignoranti, mi sono invece annoiato, non sempre ma spesso. Almeno ho preferito prenderla con umorismo. Buon Tolstoj a tutti voi.

La citazione: E la candela con la quale ella leggeva il libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, si infiammò d'una luce più vivida che non mai, le illuminò tutto quello che prima era nelle tenebre, scoppiettò, cominciò a oscurarsi e si spense per sempre.

martedì

La prima notte, di Raul Montanari

Ad agosto del 2010 commentando il libro “che tu sia per me coltello” ponevo due domande, la prima: “Può una persona aprirsi onestamente e senza riserve ad un’altra a lei completamente sconosciuta?”. A questa prima domanda la risposta si conferma essere affermativa. Ci sono persone capaci di ammaliarci per caratteristiche insignificanti al resto del mondo, come la capacità di ascoltare, di saper chiedere scusa, di non vergognarsi nel mostrarsi vulnerabili, di non temere il giudizio di chi ci circonda, in breve di essere in sintonia con la nostra magia, “la magia che ci portiamo dentro tutti. Quella che ci fa fare le cose, che ci orienta come se fossimo dei pezzettini di ferro che subiscono l'influenza di un magnete...con la differenza che il magnete non sta fuori, sta proprio dentro”. E quando questa magia si materializza paura e desiderio “le due grandi leggi che regolano la vita di tutti noi” convergono ad un solo fine, un bellissimo, struggente, intimo, gioioso incontro non (o non solo) di corpi ma di anime.
La seconda domanda che ponevo era “ Può l’incontro con l’universo ed il linguaggio di uno sconosciuto essere altrettanto sensuale ed eccitante del primo incontro con il corpo dell’altro?” E in questo libro Montanari risponde forse meglio di grossmann a questa domanda, perché  è un libro sensuale ed eccitante che tra paura e desiderio, tenerezza e passione,  percorre due strade parallele, quella dello svelare all’altro il proprio vissuto e quella della prima notte d’amore, tra passato e presente, tra immateriale e contingente, tra corpo e pensiero…leggete questo stralcio a cavallo di questo parallelo:
"...gli uomini e le donne, secondo me, sono come i loro organi sessuali...Ma sì, confronta un pene e una vagina e sappimi dire! Il cazzo è tutto estroverso, visibile, un po' stupido, prevedibilissimo sia nelle impennate di euforia sia negli sconforti e le depressioni. A volte sa essere cattivo ma spesso invece è buffo e invadente come un cucciolo di labrador. Invece noi siamo introverse, complesse, piegose, labirintiche"
 Entrambi i libri però dimostrano come per poter emozionare non serva raccontare chissà quali avventure (anche se  in questo libro non ve ne mancheranno), ma basti esprimere le proprie esperienze, paure, debolezze e speranze con una sincerità semplice ed essenziale, sintetica ed inconfutabile ... citando D.G. “Un assioma che parli di me e di te e delle cose che la nostalgia rende fragili, vibranti e dolorose"
La citazione: “l'amore di una madre non è qualcosa che si divide e diminuisce, come un pacchetto di patatine che devono essere spartite fra uno, due, più figli. E' piuttosto come la luce che entra in una stanza e illumina ogni oggetto, ogni volto. Se si aggiunge un volto in più, la luce toccherà anche quello in uguale misura, senza togliere nulla agli altri."

giovedì

Delitto e castigo Di Fedor M. Dostoevskij


La libertà illimitata dell’uomo ed il bene dell’umanità possono legittimare ogni azione, anche l’omicidio? Si può trasformare qualsiasi uomo in uno strumento di una grande idea?
La storia di Raskolnikov sembrerebbe negare quest’ipotesi, nulla di «grande», di «straordinario» e di «universale» scaturisce dall’omicidio che ha commesso; la sua “affermazione” invece di manifestarsi nella realizzazione di un nuovo Napoleone, si tramuta in un’offesa alla vita che travolge la sua stessa esistenza, trasformandolo in un novello Oreste perseguitato dalle Erinni. E cosi il libero arbitrio che non salvaguarda nulla, per cui tutto può essere profanato diventando semplice sperimentazione della propria volontà, si dissipa tragicamente. Nel suo alter ego,  Svidrigajlov, la ribellione diventa indifferenza, l’orgoglio titanico una voluttà abbietta, il tormento per la propria caduta si trasforma in ebbrezza per la propria denigrazione. Ma in entrambi la libertà illimitata e arbitraria non sopporta se stessa, consegnandosi alla legge (Raskolnikov), o dissolvendosi  in uno stato di noia e di indifferenza autodistruttiva (Svidrigajlov). L’unica figura salvifica rimane quella di Sonja; Lei è cosciente del proprio peccato e perdona il peccato altrui, accoglie nel proprio dolore quello dell’altro, attraverso il proprio amore riconsegna a Raskolnikov  quella salvezza che sembrava irrimediabilmente perduta.
Insomma, dimenticate la faccia antipatica del vostro vecchio professore di lettere e quella di chi vi ha detto che i classici russi sono mattoni e leggendolo troverete un romanzo che è attento studio psicologico, intrigo poliziesco , apologo sulla redenzione d'un assassino, ma anche storia di dicotomie,  la vittima da sacrificare (Alena) accanto a quella innocente (Lizaveta), la madre che non si da mai per vinta (Katerina) accanto a quella docile ed arrendevole(Pul'cherija),  e le "due figlie" Sonja e Dunja, cosi diverse eppure cosi affini.  Vi rimarranno impressi i personaggi così diversi e veri, i diversi stili in cui amano esprimersi, prettamente giuridico quello di Luin, magniloquente quello di Marmeladov,  spigliato e sincero quello di Razumichin, calcolato e maieutico-socratico quello di Porfirij Petrovic, ed infine quella  "febbre”, come ultima forma di difesa del nostro corpo ad una realtà detestabile.