Uno sguardo sulle mie letture

Uno sguardo sulle mie letture

lunedì

Il piccolo principe, di Antoine de Saint-Exupéry

Questo è un libro che ho letto molte volte, ad intervalli regolari, capace di regalarmi ad ogni occasione sensazioni diverse, in base alla mia maturità, alle convinzioni del momento, agli stati d’animo dominanti.  Ho sempre avuto l’impressione di essere di fronte ad una storia profonda, che supera i confini del genere narrativo specifico per diventare Grande Letteratura. Rimango incantato dalla disarmante semplicità di linguaggio dell’autore, che non significa in questo caso certo banalità; anzi, il piccolo principe è un racconto di un’originalità indiscutibile. E’ un libro intuitivo ed affascinante per i bambini, ma è anche un racconto accattivante e coinvolgente per gli adulti. Con la delicatezza dello sguardo dei bambini viene descritta l’amicizia, l’amore, la fedeltà, la capacità di costruire relazioni,  la necessità di staccarci da chi amiamo per comprenderne il valore perché stando troppo vicini si finisce per dare tutto per scontato, il potere dell’immaginazione, il misterioso paese delle lacrime, la natura di ogni legame, cosa da valore alle cose e come bisogna cercarle («non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi»). Persino la morte viene tratteggiata, non più intesa come fine ultimo della vita ma come raggiungimento di una tappa, distaccamento da un corpo materiale che non ci fa volare e fa da freno alla nostra immaginazione.  Il bambino, l’asteroide, i vulcani, il baobab, gli incontri che fa sul suo cammino, sono tutti elementi che possono essere affrontati con moltissime chiavi di lettura.  Saranno gli occhi del lettore a decifrarne ogni volta una diversa, ma mai tutte insieme: ci vorrebbero occhi di bambino, di adulto e di vecchio insieme. Per questo la storia possiede una poetica unica, che si fonda sul non detto. Ha la gradevolezza di una metafora felice ed è prolifica di significati come solo pochi libri straordinari sanno fare. I nostri atteggiamenti più comuni vengono evidenziati in tutta la loro dirompente irragionevolezza e spesso inutilità.
«I grandi che amano le cifre. Quando voi gli parlate di un nuovo amico, mai si interessano alle cose essenziali. Non si domandano mai: "Qual'è il tono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?" Ma vi domandano: "Che età ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?" Allora soltanto credono di conoscerlo. Se voi dite ai grandi:"Ho visto una bella casa in mattoni rosa, con dei gerani alle finestre, e dei colombi sul tetto"" loro non arrivano a immaginarsela. Bisogna dire: "Ho visto una casa di centomila lire", e allora esclamano: "Com'è bella".»
«Io non conosco un pianeta su cui c'è un signor Chermisi. Non ha mai respirato un fiore. Non ha mai guardato una stella. Non ha mai voluto bene a nessuno. Non fa altro che addizioni. E tutto il giorno ripete come te: “Io sono un uomo serio! Io sono un uomo serio!” e si gonfia di orgoglio. Ma non è un uomo, è un fungo!»
 “A che ti serve possedere le stelle?” chiese il Piccolo Principe all’uomo “Mi serve ad essere ricco” “E a che serve essere ricco?” “A comperare delle altre stelle se qualcuno ne trova” “Io” disse il Piccolo Principe “possiedo un fiore che innaffio tutti i giorni e possiedo tre vulcani dei quali spazzo il camino tutte le settimane. E’ utile ai miei vulcani e al mio fiore che li possegga. Ma tu non sei utile alle stelle.”
L’uomo d’affari accumula certificati di stelle possedute, come nella nostra realtà accumulerebbe soldi.  Ma le stelle non hanno alcuna utilità nell’essere possedute. Sono in alto per ricordarci che i nostri desideri, quelli veri, sono sempre più in là di dove siamo giunti. Le stelle ci guidano nella notte verso la meta, come i desideri sono una guida nella vita. Ma l’uomo d’affari del Piccolo Principe non segue i suoi desideri, guarda in alto e poi porta i suoi desideri dov’è lui, possedendoli, in modo che non possano essere più un mistero, e avendoli chiusi in banca lui possa rimanere dov’è già. Quei certificati rimangono a memoria di ciò che poteva fare e ha deciso di non provare. Questo paradosso del “senso del nostro quotidiano”, per cui diviene impossibile smettere di fare una cosa, anche quando ormai è priva di senso,  un paradosso che ha origine quando visto un proprio limite non lo si è superato, e gli si è permesso di assorbire tutte le nostre energie e diventare esso stesso il senso stesso della vita. L’ubriacone, seduto a un tavolo, ha di fronte sia bottiglie piene che vuote, si trova di fronte al suo passato e al futuro, che quel passato continuerà a determinare.  Ma, se l’ubriacone ha le bottiglie vuote di fronte a sè come simbolo di ciò che è rimasto di vuoto, l’uomo d’affari non vede neanche quel vuoto, e per questo non prova vergogna. Questa mancanza lo porta  a non percepire più la realtà e gli impedisce di porsi, o farsi porre, alcun interrogativo.
"Gli uomini hanno delle stelle che non sono le stesse. Per gli uni, quelli che viaggiano, le stelle sono delle guide. Per altri non sono che delle piccole luci. Per altri, che sono dei sapienti, sono dei problemi. Per il mio uomo d'affari erano dell'oro. Ma tutte queste stelle stanno zitte. Tu, tu avrai delle stelle come nessuno ha..." "Che cosa vuoi dire?" "Quando tu guarderai il cielo, la notte, visto che io abiterò in una di esse, visto che io riderò in una di esse, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero. Tu avrai, tu solo, delle stelle che sanno ridere!"
E allora guardate il cielo e domandatevi: la pecora ha mangiato o non ha mangiato il fiore? E vedrete che tutto cambia... e sperate che per voi questo abbia sempre importanza.

Il Bignamino:
Mi disegni, per favore, una pecora?” “Questa è soltanto la sua cassetta. La pecora che volevi sta dentro”… “Questo è proprio quello che volevo”


*****

domenica

Gli arancini di Montalbano, di Andrea Camilleri


«Sono uno sbirro, ingegnere. Suo cugino ha messo in moto il meccanismo che disgraziatamente ho in testa e questo meccanismo non è più capace d'arrestarsi se non produce qualche risultato». Ecco l’origine di questi venti racconti, Montalbano non è capace di arrestare quel meccanismo nato da un gesto inopportuno, un tono di voce incongruo, una parola fuoriposto, e lui è li a non darsi pace fino alla soluzione del busillisi. Si può obiettare che la forma di narrazione breve mal si adatti al talento di Camilleri, eppure a mio avviso è tutto li, nell’arancino. Questa meravigliosa frittura non ha la vastità di una cena, il suo dolce svolgersi in antipasto, primo e secondo, la sua strutturata completezza, eppure se avete mai cenato ad arancini, fatti “come Dio comanda”, vi troverete a divorarli uno dopo l’altro, e a  non rimpiangere nulla di una cena sfarzosa. Così questi racconti forse mancano dell'atmosfera e nelle ambientazioni che si "respirano" durante lo studiato dipanarsi dei libri di Camilleri, ma nelle narrazioni vi è tutta la dignità dei suoi libri più belli, piccole storie fatte “come Dio comanda”, da divorare una dopo l’altra.
Troverete il sempre vulcanico Catarella:
"Pronti,dottori? è lei pirsonalmente di pirsona?"
"Si,Catarè."
"Che faceva,dormiva?"
"Sino a un minuto fa si,Catarè."
"E ora inveci non dorme cchiù?"
"No,ora non dormo più,Catarè."
"Ah,meno mali."
"Meno mali perchè,Catarè?"
"Pirchì accussì non l'arrisbigliai dottori."
O spararlo in faccia alla prima occasione o fare finta di niente.

Troverete le sue barocche cortesie:
«Catarella, mi devi fare un favore speciale e importante.»
«Dottori, quando vossia mi addimanda a mia pirsonalmente di farci un favore a vossia pirsonalmente di pirsona, fa un favori a mia quando che me l'addimanda.»

Troverete quell’italiana diffidenza verso la giustizia:
«Mi dica una cosa, Trupia, perché questo non l'ha detto al processo?»
«Pirchì nisciuno mi lo spiò. E po' iu con la liggi non ci voliva aviri a che fari. Cu si trova ammiscato con la liggi, cu lu tortu o cu la ragioni, ci perdi sempre le spise.»
«E perché ora mi sta contando tutto? Io sono un orno di legge. E lei lo sa benissimo.»
«Egregiu signuri, vossia non considera ca iu haiu sittant'anni passati. E perciò minni pozzu fùttiri tantu di vossia quantu di la liggi ca vossia rappresenta.»

Ho trovato il piacere tutto Messinese di ridere alla babbiata di Fazio: «Tra Pace e Contemplazione si trova il Paradiso...»

Ma soprattutto troverete...la vera ricetta degli arancini...e perfavore...non chiamateli crocchette di riso:
«Il giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone e di maiale in parti uguali che deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appressosi pripara un risotto, quello che chiamano alla milanisa (senza zaffirano, pi carità!), lo si versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre. Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini `na poco di fette di salame e si fa tutta una composta con
la carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pi carità di Dio!). Il suco della carne s'ammisca col risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s'assistema nel palmo d'una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e si copre con dell'altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d'ovo e nel pane grattato. Doppo, tutti gli arancini s'infilano in una padeddra d'oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d'oro vecchio. Si lasciano scolare sulla carta. E alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano!»

lunedì

Carne e sangue, di Michael Cunningham


C’è una citazione di Geltrude Stein, posta in epigrafe a questo romanzo, che recita: «Una volta un uomo infuriato trascinò il proprio padre sul terreno del suo frutteto. “Fermati!” gridò infine il vecchio gemente. “Fermati! Io non ho trascinato mio padre oltre questo albero”».
Più volte nel corso della lettura di questo libro sono tornato su questa citazione, sapendo che in essa è sepolta una chiave di lettura preziosa, data dal suo stesso autore. All’inizio completamente enigmatica, con lo svolgersi delle pagine, con la caratterizzazione dei personaggi, col susseguirsi delle generazioni, questa citazione è stata capace di dirmi molto.
E’ una citazione, ed un libro, che parla di conflitto tra generazioni, tra padri e figli, un conflitto connesso al trascorrere del tempo e delle stagioni e caratterizzato da una sorta di ciclicità: ogni figlio trascina il proprio padre nel frutteto, si scontra con lui e in tal modo si afferma. Il conflitto con la figura paterna si rivela sempre necessario e in qualche modo fortificante, ma vi sono anche personaggi che non riescono ad affrontarlo: essi rimangono schiacciati sotto il peso delle aspettative e, poiché non riescono ad uniformarsi alle attese si sentono fuori sintonia, errati, disposti anche al suicidio pur di non uscire allo scoperto nel campo aperto del frutteto. Nella citazione della Stein  c’è anche dell’altro: il «vecchio gemente» chiede al figlio di fermarsi, di non andar oltre un certo limite «“Io non ho trascinato mio padre oltre questo albero”». Un’affermazione che contiene una implicita confessione: il padre svela di aver a sua volta compiuto il gesto di infierire sul proprio genitore; il padre confessa di essere stato figlio. Questa confessione in qualche modo legittima e ridimensiona il gesto violento dell’«uomo infuriato»; è infatti come se il vecchio dicesse: “Quello che stai facendo non è grave come forse tu temi: anch’io l’ho fatto quando ero come te. E tuttavia non è neppure eclatante come tu speri: ogni figlio ha dovuto, per diventare a sua volta padre, compiere questo stesso gesto”. C’è anche un monito: “Se ogni figlio compie questo gesto su suo padre, anche tu, una volta divenuto a tua volta padre, lo subirai da tuo figlio”. E però non è tutto qui. La frase del vecchio gemente contiene anche una difesa: «“Io non ho trascinato mio padre oltre questo albero”». E’ come se il vecchio reclamasse l’esistenza di un limite fino al quale è legittimo trascinare il proprio padre, quasi fosse inevitabile, ma che colpevole e illegittimo sarebbe trascinarlo oltre. Una difesa che sembra alludere alla forza di rottura portata nei rapporti personali dalle generazioni future: se ogni figlio ha necessariamente trascinato il padre fino a un certo punto, ora sono giunti sulla scena del tempo nuovi figli che non possono fermarsi perché con loro è giunta un’epoca che trascina il passato in un territorio radicalmente nuovo. È la sfida dei figli di Constantine e di Mary, i figli che hanno l’età di Susan, di Billy e di Zoe, nati negli anni Cinquanta e segnati dal salto culturale dei Sessanta: trascinare i propri padri ben oltre il punto fino al quale questi avevano trascinato i loro. È anche la condanna di quei figli, che trascinando i padri devono trascinare anche se stessi. Se Constantine trasforma la lotta per la sopravvivenza del proprio padre nella Grecia arretrata dell’anteguerra in una fortunata affermazione sociale negli USA dove è emigrato dopo la guerra, i figli di lui devono vedersela con un territorio non meno inaudito, un nuovo mondo dell’etica e delle relazioni interpersonali che insegue la propria identità nella droga, nelle follie automobilistiche del sabato sera, nell’amicizia con nuove figure sociali (come il travestito Cassandra). Se Constantine bambino contro il padre aveva coltivato un minuscolo orto tutto suo, in realtà intenzionato a replicare quello paterno, Zoe fugge sugli alberi, Billy sfida la morte correndo in auto, e Susan, incapace di gesti radicali di ribellione e di autoaffermazione, vive in bilico fra complicità e disgusto, fra patteggiamento e odio. Nessuno vuole emulare e superare il padre. La questione è ometterlo, lui e i suoi valori. Chi, come Billy, per scoprire la propria omosessualità, chi, come Zoe, per inseguire un ideale di purezza vitale privo di compromessi con la realtà. E Susan, che non riesce a prendere clamorosamente le distanze, deve infine trovare la strada della vendetta, e baciare in bocca, fissandolo negli occhi perché sappia che non lo ha perdonato. Ognuno dei gesti compiuti da questi figli è impensabile solo una generazione prima della loro: per questo essi trascinano il padre oltre il segno da questi raggiunto al suo turno.

Cunningham è capace di vedere il mondo così com’è, un mondo di contraddizioni e di rapporti di forza e ci regala il ruolo di osservatori privilegiati di un mondo intero, descrivendo il carattere di ciascun personaggio con la registrazione dell’io attraverso l’altro: Billy è narrato secondo lo sguardo del padre, e questi attraverso quello del figlio; la vita di Billy al college è intuita per mezzo delle riflessioni della madre Mary di fronte agli spazzolini da denti del figlio e dei suoi coinquilini. In questo modo, ogni frammento del racconto dice due cose, parlando al tempo stesso del suo oggetto ma anche dello sguardo che lo filtra. Una  realtà che sta nella relazione fra le psicologie. Se l’intolleranza del padre di fronte alla gracilità di Billy ci comunica solo l’oscuro ribrezzo di Constantine per l’omosessualità, l’incrocio di punti di vista fra i due introduce il tema di una trasformazione storica alle porte: come Billy resiste alla violenza paterna, sfidandone il pregiudizio, così saprà interpretare il nuovo punto di vista sui temi della sessualità. E cosi il narratore a volte è come un antropologo che registra i riti di una cultura prossima a crollare sotto il peso della propria storia, più spesso partecipa dall'interno alle esperienze di chi prova disperatamente a ridefinire il senso dei rapporti familiari e delle relazioni personali. I personaggi contenuti nel libro, sebbene difficili e a volte odiosi, sono sempre comprensibili perchè perfettamente caratterizzati, capaci di spiccare il volo o morire sotto il proprio potere.

A Jamal è affidato il compito di siglare l’ultima pagina del romanzo, egli sembra raffigurare un’ipotesi di futuro. Sposato e con un figlio, Jamal si è preso cura di Harry e poi di Will, accompagnandone la malattia fino alla morte. E qui entriamo in contatto con un tema profondo del romanzo: il senso del tempo e la ricerca di significati durevoli, capaci di sfuggire alla dispersione. Il fatto che la narrazione si concluda con la dispersione di ceneri potrebbe indurre a credere che la scommessa sia stata perduta. Nelle due pagine di racconto condensato del penultimo capitolo sono scomparsi tutti, e di nessuno sembra restare traccia. Alla domanda di Jamal al figlio «“Ti ricordi di tuo nonno?”», questi risponde un secco «“No”».
Ma Jamal ricorda, perché ha «vissuto con Harry e con Will, tanto, tanto tempo fa», come egli confida al figlio. Ma più ancora Will sopravvive perché quel nipote che non lo ricorda porta il suo nome, non quello che i genitori gli avevano dato, ma l’altro da lui stesso conquistato. E insieme al nome eredita dal nonno un sistema di valori che configura la nuova relazione fra genitori e figli, un’intesa autentica che traspare dalle battute di dialogo fra Jamal e il piccolo Will. Al conflitto narrato nei capitoli precedenti sembra sostituirsi un patto fra le generazioni, capace di includere, accanto all’intesa serena fra padre e figlio, la memoria dei nonni.
«Quando tornerò faremo l’orto. Va bene?”». L’orto, come cento anni prima, nella prima pagina del libro. Anche lì un padre e un figlio di pochi anni, Constantine, facevano un orto. Ma questa volta c’è da credere che i due potranno collaborare, e che il bambino non dovrà nascondersi la terra in bocca per trovare un suo spazio. Questa volta, forse, una volta cresciuto non dovrà trascinare il padre, gemente, sul terreno del suo frutteto: ci stanno già andando insieme.

In chiusura vi regalo alcune delle più belle “pennellate” di letteratura che ho trovato in questo libro, alcune date dalla descrizione dei personaggi:
« Suo padre aveva un occhio spietato, capace di scoprire un‘unica pagliuzza cattiva in dieci balle di buone intenzioni… Sua madre, che si era trasferita da Palermo al New Jersey [negli anni trenta] perché i suoi figli nascessero cittadini degli Stati Uniti, esponeva nel cortile davanti a casa una bandiera americana accanto a una Madonna Addolorata di gesso»
«Il padre di Ben aveva parcheggiato e stava scendendo. Portava con sè il suo austero spirito di sacrificio, la sua infinita virtù. Ben corse da lui ed entrò nella sua bontà, nel suo rigore e nel suo lavoro quotidiano. Per un attimo furono entrambi la stessa persona. Poi suo padre disse “Ehi, socio, come va?” e il suono della sua voce fu sufficiente a separarli. Il padre di Ben viveva una vita d’attese, Ben era ciò che lui aspettava.»

Alcune dalla descrizione asciutta e profonda di desideri o sentimenti:
« Voleva ciò che lui non poteva darle. La sua infanzia, le sue paure. Le sue spiegazioni. Non che fosse sgarbato, ma viveva in un suo mondo. E lei poteva impararne le regole solo violandole. Nel mondo di Levon i complimenti erano insulti e le storie bugie.»
«Susan era sopraffatta da una collera spassionata, incandescente, diversa da tutto ciò che aveva conosciuto. Auspicava la rovina di quelli che possedevano quelle comode case, che s'occupavano di quei giardini o pagavano altri perchè se ne occupassero. Augurò fallimenti a quelle persone, malattie, perdite inenarrabili. Toccò un tronco d'albero e pensò a un'inondazione che travolgesse questa strada innocente, a un muro ribollente di fango che sfondasse le porte delle case»

Alcune da alcune battute capaci di dare gioia e luce ai momenti più bui:
«L’amore ha una brutta fama. A chi non farebbe paura dopo tutti quei film?»
«Sinceramente, come hai fatto a cavartela in tutto questo tempo senza mascara impermeabile e senza umorismo?»

Il Bignamino:Una volta un uomo infuriato trascinò il proprio padre sul terreno del suo frutteto. “Fermati!” gridò infine il vecchio gemente. “Fermati! Io non ho trascinato mio padre oltre questo albero”».
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giovedì

Dell'amore e di altri demoni, di Gabriel Garcia Marquez


La rilettura di un libro è sempre un’esperienza ambigua, da un lato ci si sente spogliati dall’avida curiosità dello svolgersi della storia, dall’altro si può gustare con maggiore agio la bellezza della singola pagina, riga, parola, maggiormente consci che l’obiettivo non è arrivare…ma viaggiare, non è finire il libro, ma leggerlo.
Con questa prospettiva ho riletto Dell'amore e di altri demoni, un romanzo di Gabriel Garcia Marquez.
Marquez ci riporta in quei paesi del Caribe che già aveva raccontato in “L’amore ai tempi del colera”. In questo scenario si snodano le storie di una famiglia straziata, un mondo clericale vario ma troppo spesso legato a preconcetti inutili, e soprattutto l’Amore, unico filo conduttore della storia, non inteso come sentimento puro che unisce due anime ma piuttosto come un vero e proprio demone che, se non saputo tenere a bada, può rovinare l’esistenza.

 «Lei gli domandò in quei giorni se era vero, come dicevano le canzoni, che l'amore poteva tutto. “è vero” le rispose lui “ma farai bene a non crederci”»
«Quando indugio a contemplare il mio stato e a guardar la strada lungo cui mi hai condotto. Io finirò per abbandonarmi a chi saprà prendermi e finirmi».

Nel romanzo, l’Amore si manifesta in svariati modi attraverso i magnifici personaggi che popolano le vicende del libro.

Quello di Abrenuncio è amore per la medicina e l’umanitá, razionale fino al punto da affermare
«Non c'è medicina che guarisca quel che non guarisce la felicità»

E’ un amore paterno e tardivo quello del marchese di Casalduero, che decide di rinchiudere in convento la figlia poiché la ritiene essere posseduta dai demoni.
«l'ultimo ricordo che ebbe di lei fu quando fini di attraversare la loggia del giardino, strascicando il piede ferito, e scomparve nel padiglione delle sepolte vive»

Era un amore fedele e privo di dubbi quello del sacerdote Caetano Delaura incaricato dell’esorcismo della ragazzina
«Sicché l'essenziale non è che tu creda, ma che Dio continui a credere in te»

Un amore che folgorato fa Sierva Maria il suo unico scopo, e diventata passionale, totale, segreto e distruttivo, tale da attanagliargli l’anima e portalo a rovinarsi l’esistenza.
«quando ebbe finito prese la mano di Maria e se la passò sul cuore. Lei vi sentì dentro il fragore della sua bufera. “sono sempre cosi” disse lui......e senza lasciare tempo al panico si liberò della materia torbida che gli impediva di vivere. Le confessò che non passava un istante senza pensare a lei, che tutto quanto mangiava o beveva aveva il sapore di lei...che la vita era lei ad ogni ora, ovunque, come solo Dio aveva il diritto e il potere di esserlo, e che il godimento supremo del suo cuore sarebbe stato morire con lei[..]. Lei si azzardò solo a domandare“e adesso?” “adesso nulla”disse lui “mi basta che tu lo sappia”»

E’ amore per la vita il sentimento che anima le parole ed i gesti di Sierva Maria, una vita che viene consumata con la stessa voracità che popola i suoi sogni mentre spilluzzica l’uva «quasi senza respiro per l’ ansia di spogliare il grappolo fino all’ultimo acino»

Su questo Amore aleggiano i personaggi di Màrquez, spesso ambigui ed avvolti in un alone di mistero, unici ed insondabili, mai monocolore, mai semplicemente “puri” o “dannati” ma piuttosto opachi, in bilico tra paradiso e dannazione, esemplare in questo senso il colloquio tra Abrenuncio e Delaura:
«“Non teme di dannarsi?” “Credo di esserlo già, ma non per lo Spirito Santo. […] Ho sempre creduto che lui tiene più da conto l’ amore che la fede”»

Il Bignamino: Per te nacqui, per te ho la vita, per te morirò e per te muoio

martedì

Chiedi alla polvere, di John Fante


Baldini è innanzittutto uno scrittore per mestiere, scrive perché ha fame e vuole mangiare, perché è solo e vuole donne ricche e profumate. Per scrivere vive la sua vita, la studia e la disciplina come un possibile concept letterario, ogni episodio è un capitolo o un intero racconto. Per sapere quanto di autobiografico c’è in questa “visione” basta leggersi il prologo scritto da Fante e posto dall’editore in coda al racconto.
Poi entra in scena Camilla, la donna sbagliata con cui decide di stare, senza farsi troppe domande, esule disposto a seguirla come un automa, succeda quel che succeda. Ne nasce una storia di amore non ricambiato e follia, senza eroi, irrisolvibile, dolorosa, che ha nella polvere il suo unico testimone. Camilla e Arturo, come due facce della stessa medaglia che gira vorticosamente, si inseguono, ma non riescono mai a raggiungersi. Una storia continuamente in bilico come su una bilancia, che raggiunge la sua massima felicità quando le due vite fluttuano in equilibrio in alcuni rari, ineffabili istanti, come quando Arturo rivolge un sincero complimento alla ragazza, ricevendone in cambio una carezza: "Mi passò le dita fra i capelli e la sua gioia calda mi si trasmise dentro come un fluido; sentii la gola che mi scottava e una profonda felicità insinuarsi in ogni mia fibra". E come su una bilancia quando Arturo toccherà il suo apice come scrittore Camilla sprofonderà negli abissi dell'autodistruzione e della follia, fino a sparire fra le colline, i sassi, il cielo perché “Era quella la sua strada”.
Questo romanzo rapisce per la desolazione che continuamente si affaccia sulle vite dei suoi personaggi, con il deserto che fa da sfondo ideale alle loro esistenze febbrili.
“Il deserto era lì, come un bianco animale paziente, in attesa che gli uomini morissero e le civiltà vacillassero come fiammelle, prima di spegnersi del tutto. Intuii allora il coraggio dell'umanità, e fui contento di farne parte”

Il discorso della montagna, di Carlo Maria Martini


Una volta ho avuto la fortuna di incrociare un prete, un Oblato di Maria Immacolata, capace di darmi la più bella ed importante lezione di catechismo mai ricevuta: mi spiegò la parabola del padre misericordioso (erroneamente conosciuta come quella del figliol prodigo). Da allora posso dire di essermi innamorato del Padre, di Dio Padre. Dopo quel racconto mi sono chiesto se ne esistessero altri, capaci di svelarmi l’anima di una parabola, di un discorso, per leggere e comprendere pienamente la Sua parola. E’ con questo spirito che ho iniziato la lettura di questo libro. Purtroppo devo ammettere che a parte alcuni spunti degni di nota, non ho trovato nelle meditazioni del cardinal Martini quella chiave di lettura alternativa e meravigliosa che speravo. Ma non ne faccio un demerito del cardinale, al contrario penso sia dovuto alla magnifica bellezza del discorso stesso, che non necessita di acculturate analisi del testo per essere compreso ed amato. Detto ciò ho comunque il piacere di condividere con voi alcuni dei passaggi più interessanti.
La parte centrale del Discorso della montagna è il Padre Nostro, la cui sostanza è il desiderio ardente che si compia il disegno di Dio su di noi e che il Regno si manifesti. Analizziamo le singole invocazioni
«Padre Nostro» In quel “Nostro” dobbiamo sentirci una cosa sola con tutti i battezzati, i fedeli, i credenti.
«Che sei nei cieli» Esprime infinita distanza e dovremmo quindi pronunciala con il cuore pieno di riverenza .
«Sia santificato il tuo nome» E' la prima esortazione rivolta nella preghiera...ma è il nostro primo desiderio? Siamo capaci di pregare dimenticando noi stessi, il nostro desiderio di successo, la nostra voglia di fare bella figura e di non diminuire nella reputazione delle persone?
«Venga il tuo Regno» Aspiriamo davvero al Regno di Dio nella sua totalità? Non solo pace, benessere, giustizia, ma siamo anche disposti a lasciare tutto e a prendere la croce? 
«Sia fatta la tua volontà» Spesso desideriamo sia fatta la Sua volontà solo  concorda con la nostra. Gesù nell'orto degli ulivi mostra quanto è difficile fare la volontà del Padre! Riuscire a compiere la volontà di Dio è grazia da chiedere insistentemente.
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano» Pronunciando queste parole, in realtà, vogliamo un certo benessere, la macchina, il televisore...il "pane quotidiano" equivale a domandare solo il necessario per vivere e insieme essere contenti senza cercare altro, con quello di spirito di austerità e rinuncia che l'invocazione richiede!
«Rimetti a noi i nostri debiti» In questa invocazione è implicita la Fede che Dio rimette i nostri peccati con piena, gratuita misericordiosa bontà.
«Come noi li rimettiamo ai nostri debitori» Talora ci sembra di non avere nemici. Ma ad un serio esame di coscienza, emergono sentimenti di amarezza, di scontentezza, di astio e di rancore .
«Non ci indurre in tentazione» Spesso non siamo del tutto scontenti che le tentazioni vadano e vengano attorno a noi, giochiamo con esse, senza una seria decisione di vincerle .
«Ma liberaci dal maligno» Troppo spesso il nostro cuore lascia che il maligno ci ronzi attorno, con forme di disfattismo, di tristezza, di nostalgia dei tempi passati. Ricordiamoci come il maligno agisce: egli seduce, rattrista, spaventa, occulta.
Impariamo dal discorso della montagna che non ci si deve preoccupare perché chi si preoccupa più del dovuto disonora il Padre che ha cura di noi. Il “beati i poveri” può essere tradotto come beati coloro che fanno affidamento in Dio, ed è la beatitudine che insieme ai perseguitati per l’osservanza alla legge cristiana (“i perseguitati”) si realizza nel presente perché il Regno è già posseduto da loro.
Ma saranno beati anche coloro che sanno piangere sui mali del mondo e della propria anima.(“gli afflitti”), coloro che non si fanno giustizia da sé, ma sperano in Dio (“i miti”), coloro che si danno da fare per essere santi (“affamati e assetati di giustizia”), coloro che compiono opere concrete di misericordia, coloro che riservano a Dio l’obbedienza di un cuore indiviso (“puri di cuore”) e coloro che mettono, seminano, lavorano per la pace là dove c’è amarezza, divisione, conflitto, maldicenza.
Sono le stesse certezze che è bello ritrovare mirabilmente espresse nel Magnificat: «Dio ha guardato l’umiltà della sua serva» (beati i poveri), «ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore» (guai a voi, o ricchi), «ha innalzato gli umili» (beati i miti, beati i misericordiosi), «ha ricolmato di beni gli affamati» (beati coloro che hanno fame e sete di giustizia).
Vivere il Discorso della montagna richiede che ci si abbandoni completamente al Padre, sicuri che Lui conosce ciò di cui abbiamo bisogno, perdona le nostre mancanze, le nostre negligenze, le nostre inadeguatezze, e continuamente ci attira e ci richiama a sé, se non perdiamo la fiducia e la perseveranza nella preghiera.
Il cardinale conclude le sue meditazioni con una nota di ottimismo: pur a fronte del degrado della Chiesa in Occidente (decadenza delle vocazioni, crisi del matrimonio..) il suo ottimismo risiede nella ricchezza di teologi dell’ultimo secolo. Una nota di ottimismo che non mi convince, almeno per il parametro adottato, può davvero un numero grande di straordinari teologi essere una chiave di lettura ottimistica del secolo appena passato?

lunedì

Il paradiso degli orchi, di Daniel Pennac


E' il primo romanzo in cui fa la comparsa Benjamin Malausséne, l'inizio di quello che verrà indicato come il ciclo Malausséne. Potremmo definirla la nascita dell'eroe, anzi del santo, uno che si fa carico delle disgrazie altrui, portatore sano di un vizio raro, la compassione. Egli è infatti ufficialmente impiegato del Controllo Tecnico del Grande Magazzino, in realtà “Capro Espiatorio”, è pagato per essere umiliato e accusato di incompetenza da un suo superiore davanti ai clienti inferociti venuti per fare reclamo in modo che questi, mossi a compassione, rinuncino al risarcimento, facendo risparmiare all'azienda un sacco di soldi. Malaussène con questo improbabile ma lautamente pagato mestiere mantiene la sua ancora più incredibile famiglia. Perchè Benjamin ha una mamma...sintonizzata altrove, perennemente innamorata e perennemente in fuga con l’amore di turno, fughe dalle quali torna regolarmente incinta (“Era graziosa … ancora giovane come una mamma…. era incinta fino ai capelli, come una giovane e graziosa mamma”). E grazie a questa mamma Ben eredita una tribù di figli ovviamente tutti di padri diversi ed uno più strano dell’altro: Louna, incinta e disperata, Clara che guarda il mondo attraverso una macchina fotografica, Therèse che è sempre...al di là di tutto, con le sue doti da veggente sensitiva, Jérémy, quanto di più terreno, il Piccolo con i suoi suoi Orchi Natale e gli occhiali rosa, e perfino un cane epilettico.
Da subito è impossibile non amare il personaggio, ed il piccolo universo che sfama prendendo su di se il peccato originale della società mercantile. Lo si ama per le sue qualità e per quel pizzico di sfiga alla Paperino che lo circonda, per la usa grande voglia di non nuocere all'umanità, di essere servitore degli altri, sostenitore delle cause perse, apologeta dei deboli. Benjamin vive una storia quasi surreale, per alcuni aspetti fiabesca, scritta con eccezionale fantasia e tanto humour, in bilico tra il razionale e globalizzato mondo consumistico e l'irrazionale non codificato mondo Malaussène in una sceneggiatura realistica ma degna di un fumetto.

Cosigliato a chi ha sempre pensato di poter essere un buon sordo ed un pessimo cieco. Toglietegli il mondo dalle orecchie, gli piacerà. Tappategli gli occhi, morirà.


IL PARADISO DEGLI ORCHI
Autore: Daniel Pennac
Anno: 2002
Universale Economica Feltrinelli
Pag. 206 € 7,50

Il GGG, di Roald Dahl


Non sono più un ragazzino, ma dopo la bella scoperta di Skellig volevo tuffarmi di nuovo nella “lettura per l’infanzia” volevo riassaporare il piacere di quella leggerezza, semplicità e fantasia che possiedono solo poche storie. Oggi ripongo in libreria questo libro appena letto sapendo che appena mio figlio sarà in grado di “seguirlo” glielo rileggerò con piacere, descriverò con enfasi tutti i suoi luoghi strani, darò voce a personaggi come la regina d’Inghilterra, ci lanceremo insieme nella crezione dello sciroppo smaccheramelloso pieno di bollicine sotto promessa che non si abbandoni a rumorosi “petocchi”, e lo farò con immenso piacere. So già che mi divertirò come e più di lui, perchè anche da adulti è bello abbandonarsi a storie che magari non ci rivoluzionano, non ci elevano, non ci fanno diventare (necessariamente) uomini e donne migliori, ma che possiedono quella magia dei vecchi film disney capaci di rapirci e ipnotizzarci con un sorriso ebete fine al più dolce e scontato THE END.

mercoledì

La pista di sabbia, di Andrea Camilleri


In “ La pista di sabbia” vengono meno le regole fondamentali del giallo. Una di queste che lo scrittore ha già reso elastica, se non violata, è quella più importante: il morto. “Qui l'unico morto che c'é è secondario rispetto al tema del libro”, precisa Camilleri, che parla di “tentativo di allargare i confini in cui il 'giallo' viene tenuto”. Per la verità, un morto c'è, ma non si tratta di un essere umano, bensì di un cavallo. Poteva mai il buon Salvo lasciarsi sfuggire l'occasione di avviare una delle proverbiali indagini apparentemente inutili e senza esito? “Se Montalbano segue la pista dell'uccisione del cavallo - racconta ancora Camilleri - é per diversificare le solite indagini. Appena può, da sempre, gli piace svicolare verso non usuali indagini, e questo è uno di quei casi”. Montalbano si muoverà maldestro e a disagio nel mondo delle corse clandestine, passatempo preferito di una certa aristocrazia terriera che scommette forte; ecco come descrive un party in questo ambiente dorato…ma come vedremo non proprio “aristocratico”:
«Le pirsone erano vestite che pareva cannalivari: tra i mascoli c'era chi era vistito da cavallerizzo, chi da ricevimento della regina d'Inghilterra con tanto di cilindro, chi in jeans e maglione a girocollo, chi da tirolese, chi in divisa da guardia forestale (almeno accussì gli parse), uno addirittura s'era parato come un arabo e un altro stava in pantaloncini corti e ciavatte da spiaggia»
Questa volta il nostro commissario è alle prese con l'inizio della vecchiaia, e non soltanto la sua forza si affievolisce, la lucidità si annebbia, ma le personali regole si allentano, e, di nuovo, tradisce Livia. Ma il risultato è un Salvo meno malinconico del solito, più incline ad una certa leggerezza d'animo, leggetevi la descrizione del rinfresco:
«“Hanno suonato! Hanno suonato!”
E po' tutto quello che vinni apresso fu priciso 'ntifico a 'na valanga o al tracimamento di un fiume. Ammuttannosi, spngennosi, truppicanno, urtannosi, dalle tri porte finestre si riversò nel vialone un'ondata di piena fatta di mascoli e fimmine vocianti.[…] Pariva il finale di una pillicula tragica. Sturduto, Montalbano aviva la 'mpressione che nella villa era scoppiato un incendio violento, ma le facci allegre di tutti quelli che currivano alla dispirata, gli fici subito accapire che si stava sbaglianno. Si scansò èer non essiri travolto e aspittò che la sciumara passasse. Il gong aviva annunziato che la cena era pronta. Ma com'è che avivano sempre fami 'sti nobili, 'sti imprenditori, 'sti omini d'affari?»
 Fazio è sempre alle prese con la ricerca di informazioni, e per farlo usa il “metodo siciliano:
«“Chi ti ha dato le informazioni?”.
“Un cugino dello zio di un mio cugino che ho scoperto che travaglia là”.
Le parentele, macari quelle tanto lontane da non essiri cchiù tali in qualisisiasi altra parte d'Italia, in Sicilia erano spisso l'unico sistema per aviri 'nformazioni, accelerare 'na pratica, scopriri indove era annata a finiri 'na pirsona scomparsa, trovare un posto a un figlio disoccupato, pagari meno tasse, aviri gratis i biglietti del cinema e tantissime altre cose che macari non era prudente fari sapiri a chi non era parente.»
Per un amante della cucina come me è poi stata “commovente” la descrizione degli antipasti (e solo quelli) in un ristorantino buono a Montereale marina:
«Doppo tanticchia, supra al tavolo non ci fu spazio manco per una spingula.
Gammaretti, gammaroni, totani, tonno affumicato, purpette fritte di nunnato, ricci di mare, cozze e vongole, pezzetti di purpo a strascinasali, pezzetti di purpo affucato, angiovi marinate nel suco di limone, sarde sott'oglio, calamaretti minuscoli fritti, calamaretti e seppie conditi con l'arancio e pezzetti d'acci, angiove arrutulate con la chiapparina 'n mezzo, sarde a beccafico, carpaccio di pisci spata»
Vi lascio con questo gustoso dialogo con  Catarellata:
«Erano le sei e mezza.
"Ah dottori dottori! Catarella sono!"
Gli vinni gana di garrusiare.
"Come ha detto scusi?" Fici cangianno vuci.
"Catarella sono, dottori!"
"Quale dottore cerca? Questo è il pronto soccorso veterinario."
"Oh matre santa! Mi scusasse, mi sbagliai."
Richiamò subito.
"Pronti? E' l'ambulatorio vetirinario?"
"No, Catarè. Montalbano, sono. Aspetta un momento che ti do il numero dell'ambulatorio."
"Nonsi, non lo voglio all'ambulatorio!"
"E allora, pirchì lo chiamai?"
"Non lo saccio. Scusasse, dottori, confuso sono. Può riattaccari che accomenzo da capo?"
"Va bene."
Richiamò per la terza volta.
"Dottori, vossia è?"
"Io sono."
"Che faciva, durmiva?"
"No, ballavo il rocknroll."
"Davero? Lo sapi abballari?"»

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martedì

La trilogia della città di K., di Agota Kristof


«Arriviamo dalla Grande Città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone e, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche»
Tra le pagine de “La trilogia della città di K.”, di cui avete appena letto l’incipit, potrete trovare molto dei film di David Lynch, molto delle atmosfere Kafkiane, potrete trovare la moralità in bilico dei personaggi (ora cinici, ora più umani), il sesso costantemente accompagnato da elementi che lo rendono morboso e sporco, una scrittura vista come valvola di sfogo e paradiso dove rifuggire dall’orrore circostante, la necrofilia, la pedagogia, la storia, ma soprattutto troverete un bellissimo libro. Un libro diretto, crudo, tagliente come la lama di un coltello. Una scrittura che ti induce a riflettere a quanto sia labile e accidentato il corso della vita stessa. I fatti, anche i più orribili o assurdi, sono raccontati come verità assolute, senza aggettivi, senza giudizi; l’evanescente città di K fa da filo conduttore ai tre libri, intrecciati come nelle metamorfosi di Escher, una città che a posteriori può collocarsi in un paese dell’est europeo durante la seconda guerra mondiale, a posteriori perchè per sottolineare l’indeterminatezza dei luoghi, delle identità e delle ambientazioni, si utilizzano solo delle iniziali per città e cognomi.
Storie nella storia, bambini già adulti che superano l’età della fanciullezza per ritrovarsi protagonisti di un mondo disumano che non hanno costruito, che non condividono e che li vede protagonisti indipendentemente dalla loro volontà. Costretti a subire le brutalità di una guerra che non si combatte solo al fronte, ma si riversa per le strade, nelle case, tra la gente, instillando odio, incattivendo gli animi. Storie che non lasciano spazio al futuro come possibilità di riscatto e non lasciano spazio alcuno all’amore. La terra vista solo come una colonia penale per tutti i dannati che hanno il torto di nascere. Una favola nera, una fiaba cruda, spietata, riservata rigorosamente a un pubblico adulto.
Il grande quaderno, il primo libro della trilogia, inizia proprio come molte favole, con un abbandono. Klaus e Lukas, anime gemelle, inscindibili, legate oltretutto dal reciproco anagramma dei nomi, vengono lasciati da una madre disperata alla nonna anziana, cinica, priva di sentimenti, somigliante alla classica strega delle fiabe. Durante l’allucinante ed imbruttente soggiorno presso la vecchia nonna senza cuore i due gemelli decidono di scrivere per sopravvivere imponendosi una regola tanto semplice quanto ferrea:
«il tema deve essere vero. Dobbiamo descrivere ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo. Ad esempio, è proibito scrivere “Nonna somiglia a una Strega” ma è permesso scrivere “La gente chiama Nonna la Strega” ... Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti »
«Scriveremo: “Noi mangiamo molte noci”, e non “Amiamo le noci” perché il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e di obiettività. “Amare le noci” e “amare nostra Madre”, non può voler dire la stessa cosa. La prima formula designa un gusto gradevole in bocca, e la seconda un sentimento»
Come si vede da questi stralci i due bambini non hanno nulla della consueta fragilità dell’infanzia: aggirandosi come esseri inquieti nel paese in guerra, appaiono come impersonali e cinici osservatori di quanto avviene attorno a loro, senza sembrarne all’apparenza toccati. Come intransigenti narratori sono proprio loro a raccontarci con adulto distacco la cupa disperazione e la miseria che li circondano, si creano un proprio modus vivendi ed una propria morale, limpida quanto primitiva nella loro concezione infantile di bene e male, che li indurrà anche a compiere atti di pura e malvagia giustizia. I drammi della guerra travolgeranno ben presto il loro paese, ma non loro, una monade d’acciaio che rimane impassibile persino di fronte all’atroce morte delle persone a loro più vicine. Il lettore farà fatica a considerare i due gemelli come personalità distinte perché l’autrice volutamente li fa muovere come un’unica entità osservatrice, come i due occhi di un unico volto.
Nel secondo libro, la prova, la struttura del romanzo si scioglie in un vortice di traiettorie di angoscia, il tempo va avanti e indietro, la narrazione è affidata ad un mostruoso gioco di specchi mentre una ricca galleria di personaggi entrano in scena senza farsi annunciare e altrettanto improvvisamente spariscono dietro il sipario della vita. Le identità si confondo, si scambiano, si annullano in un castello di menzogne; quando la vita è insopportabile e il dolore divora il corpo e l’anima, chi racconta deve falsificare i fatti,  alterare gli avvenimenti, ecco allora che i morti si confondono con i vivi. In un’esistenza sterilizzata dai sentimenti sconvolta da violenza e solitudine, dove l’amore è un eccesso, la menzogna è l’unica vena che alimenta i personaggi, e li costringe alla vita.
« cerco – afferma Lukas – di scrivere delle storie vere, ma, a un certo punto, la storia diventa insopportabile proprio per la sua verità e allora sono costretto a cambiarla. [...] cerco di raccontare la mia storia, ma non ci riesco, non ne ho il coraggio, mi fa troppo male. Allora abbellisco tutto e descrivo le cose non come sono accadute, ma come avrei voluto che accadessero».
«Sono convinto, Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient'altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia».
Tutto viene, quindi, a confondersi, quello che prima sembrava un canto monofonico si presenta ora come una narrazione a più voci in un alternarsi di smentite e conferme che allargano il campo d’indagine e moltiplicano le angolazioni di veduta amplificando le possibilità di interpretazione e introducendo la parte conclusiva della trilogia.
Ed attraverso la disintegrazione progressiva e metodica della narrazione precedente, fino a creare nel lettore un’ansia da disorientamento, la Kristof ci trascinerà in modo avvincente nella terza menzogna, ultimo volume della trilogia, stravolgendo ogni aspettativa, perché niente è mai come sembra, e quando tutto è contraddittorio, tutto potrebbe essere falso. Vi troverete a star male, verrete irritati, sconvolti, commossi, senza romanticismi di sorta, solo dolore denudato nella sua essenza per procurare più sofferenza possibile.
«Camminiamo uno accanto all'altro fino al castello, ci fermiamo nel cortile, ai piedi dei bastioni. Mio fratello si arrampica sul muraglione e, giunto in cima, comincia a ballare al suono di una musica che sembra provenire da un sotterraneo. Balla, agitando la braccia verso il cielo, verso le stelle, verso la luna che sta sorgendo, piena. Esile figurina avvolta in un mantello nero, avanza sui bastioni ballando, io di sotto lo seguo correndo, gridando:
- No! Non farlo! Fermati! Scendi giù! Finirai per cadere!
Si ferma al di sopra di me:
- Non te ne ricordi? Camminavamo sui tetti, non avevamo mai paura di cadere.
- Eravamo giovani, non soffrivamo di vertigini. Scendi da lì!
Ride:
- Non avere paura, non cadrò, so volare. Tutte le notti plano sulla città.
Alza le braccia, salta, si spiaccica sul selciato del cortile proprio ai miei piedi».
A rimanere costante in tutti e tre i racconti è la follia umana: assassini, violenze, torture, abusi su minori, incesti, una devastante mancanza di umanità.
“Mi metto a letto e prima di addormentarmi parlo mentalmente a Lucas, come faccio da molti anni. Quello che gli dico è più o meno la stessa cosa di sempre. Gli dico che se é morto, beato lui, e che vorrei essere al suo posto. Gli dico che gli è toccata la parte migliore e che sono io a dover reggere il fardello più pesante. Gli dico che la vita è di una inutilità totale, è non-senso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l'immaginazione”

Titolo originale: Le grand cahier, La preuve, La troiséme mensogne
Anno: 1986, 1988, 1991
Pagine: 379
 Editore: Einaudi
ISBN: 978-88-06-17398-2

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Il bignamino: La terra è una colonia penale per tutti i dannati che hanno il torto di nascere