Vorrei riportare una riflessione sulla “pazzia” e sulla “normalità” fatta da uno scrittore che prediligo: Paulo Coelho.
Coelho è stato ricoverato per sospetti disordini mentali in un…."ospizio", per usare il nome con cui era più conosciuto a quel tempo quel tipo di ospedale. Era successo per ben tre volte: nel 1965, nel 1966 e nel 1967. Egli stesso non riusciva a comprendere il motivo del suo ricovero: forse i genitori avevano equivocato sul suo comportamento diverso, fra il timido e l'estroverso; o forse era stato per quel suo desiderio di essere un "artista", qualcosa che in famiglia tutti consideravano come il modo migliore per vivere nell'emarginazione e morire in miseria. Di certo quest’esperienza ha aiutato Coelho a maturare della pazzia una sua visione poetica e spiazzante, splendidamente sintetizzata nel dialogo lepido e lucidissimo fra un dottore e la sua paziente:
Coelho è stato ricoverato per sospetti disordini mentali in un…."ospizio", per usare il nome con cui era più conosciuto a quel tempo quel tipo di ospedale. Era successo per ben tre volte: nel 1965, nel 1966 e nel 1967. Egli stesso non riusciva a comprendere il motivo del suo ricovero: forse i genitori avevano equivocato sul suo comportamento diverso, fra il timido e l'estroverso; o forse era stato per quel suo desiderio di essere un "artista", qualcosa che in famiglia tutti consideravano come il modo migliore per vivere nell'emarginazione e morire in miseria. Di certo quest’esperienza ha aiutato Coelho a maturare della pazzia una sua visione poetica e spiazzante, splendidamente sintetizzata nel dialogo lepido e lucidissimo fra un dottore e la sua paziente:
Che cos'è la realtà?”
"Ciò che la maggioranza ha ritenuto che dovrebbe
essere. Non necessariamente la situazione migliore, né la più logica, ma quella
che si è adattata al desiderio collettivo. Vedi che cos'ho intorno al collo?"
"Una cravatta."
"Giusto. La tua risposta è logica, coerente per una
persona assolutamente normale: una cravatta! Un matto, però, direbbe che porto
intorno al collo un pezzo di stoffa colorata, ridicolo, inutile, annodato in
maniera complicata, che rende difficili i movimenti della testa e richiede uno
sforzo maggiore per far entrare l'aria nei polmoni. Se dovessi distrarmi mentre
mi trovo vicino a un ventilatore, potrei morire strangolato da questo pezzo di
stoffa.
"Se un matto mi domandasse a che cosa serve una cravatta, dovrei
rispondere: "Assolutamente a niente." Non può dirsi utile neanche per
abbellirsi, perché oggigiorno è divenuta addirittura il simbolo della schiavitù,
del potere, del distacco. La sua unica utilità si manifesta al ritorno a casa,
quando una persona può togliersela, provando la sensazione di essersi liberata
da qualcosa che non sa neanche che cosa sia. "Ma quella sensazione di sollievo
giustifica l'esistenza della cravatta? No. Eppure, se domandassi a un matto e a
una persona normale che cos'è il nastro che porto intorno al collo, sarebbe
considerato sano colui che mi rispondesse: "Una cravatta." Non importa chi è nel
giusto: importa chi ha ragione."