Uno sguardo sulle mie letture

Uno sguardo sulle mie letture

venerdì

Survivor, di Chuck Palahniuk

E’ da quando ho visto fight club che mi propongo di leggere un libro di Palahniuk, finalmente ci sono riuscito e le mie aspettative non sono state deluse.

Demoni o angeli o spiriti del male, ho solo bisogno che qualcosa si mostri. Vampiri o fantasmi o bestie dalle gambe lunghe, voglio solo che mi si prenda per mano
parte da questa necessità la meteora del messia mediatico 33enne Tender Branson, che solitario in un Boeing 747 con autopilota viaggia a 39,000 piedi e lascia alla scatola nera la sua confessione; parte a ritroso dal capitolo 47 fino al ground zero dell’ultima pagina, alla ricerca di qualcosa che abbia compromesso il proprio destino, nella difficoltosa conquista di un’autonomia d’agire.
In bilico tra l’orrore del presente e la paura dell’incognito, eccovi servita una satira nera sulla cultura della celebrità istantanea del mondo moderno, contorta e comicamente maniacale, uno scorcio allarmante sull’america delle aspettative oltraggiose, dell’idolatria servile, del consumismo fanatico e della banalità che inebetisce.
Se per qualcuno l’apocalisse si sta avvicinando lentamente, per Palahniuk è già arrivata e vive nei pensieri neanche troppo velati di una moltitudine di persone che ci circondano. Un fantasy, che sempre più spesso diventa cronaca nera nei notiziari televisivi.

martedì

La lingua perduta delle gru, di David Leavitt

Quando ci si avventura nella lettura di un libro, lo si fa con animo da esploratore, come in un viaggio esotico in terre sconosciute, armati solo della propria immaginazione e, nel mio caso, di una matita, che, allo stesso modo di una macchina fotografica, mi serve per immortalare quel fil rouge che attraversa il racconto, come un fiume che attraversa ed alimenta un paesaggio. Ciò che di straordinario contraddistingue la lettura è che le frasi, i racconti, la stessa storia colpiscono ogni lettore in modo differente. Ma nel libro di David Leavitt “la lingua perduta delle gru” il cuore pulsante dell’intero romanzo è riconducibile in maniera univoca ad una storia descritta a metà libro, completamente avulsa dal resto del racconto ma capace da sola di darci la chiave di lettura dell'intera narrazione, la storia del bambino-gru:


Michel, nato da un’adolescente sbandata, probabilmente ritardata, frutto di uno
stupro. Fino all’età di quasi due anni aveva vissuto con sua madre in un
casamento popolare vicino ad un cantiere edilizio. Ogni giorno la madre vagava
dentro, intorno e fuori dall’appartamento, persa nella sua follia. Si accorgeva
appena della presenza del bambino, non sapeva nemmeno come nutrirlo e come
occuparsi di lui. I vicini erano allarmati per le grida di Michel…Poi un bel
giorno, quasi improvvisamente, i pianti si interruppero. Il bambino non gridava
più, e non gridò neanche la notte seguente. Per giorni non si sentì neanche un
rumore. Vennero chiamati la polizia e gli assistenti sociali. Trovarono il
bambino sdraiato sul suo lettino accanto alla finestra. Era vivo e
straordinariamente in buona salute, considerando quanto era stato trascurato. In
silenzio, giocava nel suo squallido lettino, fermandosi ogni qualche secondo per
guardare fuori della finestra. Il suo gioco era diverso da qualsiasi altro gioco
che avessero mai visto. Guardando fuori dalla finestra, sollevava le braccia,
poi le bloccava bruscamente, si rizzava in piedi sulle gambe scarne, poi cadeva;
si piegava e si alzava. Faceva strani rumori, una specie di scricchiolio con la
gola. Cosa stava facendo? Si chiesero gli assistenti sociali….Poi guardarono
fuori della finestra, dove erano in funzioni alcune gru, che sollevavano travi
maestre e travetti, o allungavano palle di demolizione sul loro unico braccio.
Il bambino stava osservando la gru più vicina alla finestra. Quando questa si
sollevava, lui si sollevava; quando si piegava, lui si piegava; quando le sue
marce stridevano e il motore ronzava, il bambino produceva uno stridio con i
denti, un ronzio con la lingua.
Leavitt ne sintetizza lui stesso poco più avanti nel racconto la morale:

ciascuno, a modo suo, trova ciò che deve amare, e lo ama; la finestra diventa
uno specchio; qualunque sia la cosa che amiamo, è quello che noi siamo.

E’ su questa capacità di comprendere noi stessi tramite ciò che amiamo che si misurano le scelte (e i destini) di una famiglia; la madre che svela la sua pena dignitosa quanto profonda di fronte alla scoperta dell’omosessualità del marito e del figlio e che cercherà invano di difendere la sua “normalità”, il suo “ordine delle cose” solidificato sulla meticolosa professionalità a lavoro e la passione per le parole incrociate, dove tutto ha una sua collocazione predefinita, senza ambiguità. Padre e figlio invece riusciranno a comprendere se stessi, raggiungendo faticosamente un equilibrio sentimentale che li renderà personaggi positivi e vincenti di questo bellissimo romanzo.