Uno sguardo sulle mie letture

Uno sguardo sulle mie letture

lunedì

Il piccolo principe, di Antoine de Saint-Exupéry

Questo è un libro che ho letto molte volte, ad intervalli regolari, capace di regalarmi ad ogni occasione sensazioni diverse, in base alla mia maturità, alle convinzioni del momento, agli stati d’animo dominanti.  Ho sempre avuto l’impressione di essere di fronte ad una storia profonda, che supera i confini del genere narrativo specifico per diventare Grande Letteratura. Rimango incantato dalla disarmante semplicità di linguaggio dell’autore, che non significa in questo caso certo banalità; anzi, il piccolo principe è un racconto di un’originalità indiscutibile. E’ un libro intuitivo ed affascinante per i bambini, ma è anche un racconto accattivante e coinvolgente per gli adulti. Con la delicatezza dello sguardo dei bambini viene descritta l’amicizia, l’amore, la fedeltà, la capacità di costruire relazioni,  la necessità di staccarci da chi amiamo per comprenderne il valore perché stando troppo vicini si finisce per dare tutto per scontato, il potere dell’immaginazione, il misterioso paese delle lacrime, la natura di ogni legame, cosa da valore alle cose e come bisogna cercarle («non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi»). Persino la morte viene tratteggiata, non più intesa come fine ultimo della vita ma come raggiungimento di una tappa, distaccamento da un corpo materiale che non ci fa volare e fa da freno alla nostra immaginazione.  Il bambino, l’asteroide, i vulcani, il baobab, gli incontri che fa sul suo cammino, sono tutti elementi che possono essere affrontati con moltissime chiavi di lettura.  Saranno gli occhi del lettore a decifrarne ogni volta una diversa, ma mai tutte insieme: ci vorrebbero occhi di bambino, di adulto e di vecchio insieme. Per questo la storia possiede una poetica unica, che si fonda sul non detto. Ha la gradevolezza di una metafora felice ed è prolifica di significati come solo pochi libri straordinari sanno fare. I nostri atteggiamenti più comuni vengono evidenziati in tutta la loro dirompente irragionevolezza e spesso inutilità.
«I grandi che amano le cifre. Quando voi gli parlate di un nuovo amico, mai si interessano alle cose essenziali. Non si domandano mai: "Qual'è il tono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?" Ma vi domandano: "Che età ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?" Allora soltanto credono di conoscerlo. Se voi dite ai grandi:"Ho visto una bella casa in mattoni rosa, con dei gerani alle finestre, e dei colombi sul tetto"" loro non arrivano a immaginarsela. Bisogna dire: "Ho visto una casa di centomila lire", e allora esclamano: "Com'è bella".»
«Io non conosco un pianeta su cui c'è un signor Chermisi. Non ha mai respirato un fiore. Non ha mai guardato una stella. Non ha mai voluto bene a nessuno. Non fa altro che addizioni. E tutto il giorno ripete come te: “Io sono un uomo serio! Io sono un uomo serio!” e si gonfia di orgoglio. Ma non è un uomo, è un fungo!»
 “A che ti serve possedere le stelle?” chiese il Piccolo Principe all’uomo “Mi serve ad essere ricco” “E a che serve essere ricco?” “A comperare delle altre stelle se qualcuno ne trova” “Io” disse il Piccolo Principe “possiedo un fiore che innaffio tutti i giorni e possiedo tre vulcani dei quali spazzo il camino tutte le settimane. E’ utile ai miei vulcani e al mio fiore che li possegga. Ma tu non sei utile alle stelle.”
L’uomo d’affari accumula certificati di stelle possedute, come nella nostra realtà accumulerebbe soldi.  Ma le stelle non hanno alcuna utilità nell’essere possedute. Sono in alto per ricordarci che i nostri desideri, quelli veri, sono sempre più in là di dove siamo giunti. Le stelle ci guidano nella notte verso la meta, come i desideri sono una guida nella vita. Ma l’uomo d’affari del Piccolo Principe non segue i suoi desideri, guarda in alto e poi porta i suoi desideri dov’è lui, possedendoli, in modo che non possano essere più un mistero, e avendoli chiusi in banca lui possa rimanere dov’è già. Quei certificati rimangono a memoria di ciò che poteva fare e ha deciso di non provare. Questo paradosso del “senso del nostro quotidiano”, per cui diviene impossibile smettere di fare una cosa, anche quando ormai è priva di senso,  un paradosso che ha origine quando visto un proprio limite non lo si è superato, e gli si è permesso di assorbire tutte le nostre energie e diventare esso stesso il senso stesso della vita. L’ubriacone, seduto a un tavolo, ha di fronte sia bottiglie piene che vuote, si trova di fronte al suo passato e al futuro, che quel passato continuerà a determinare.  Ma, se l’ubriacone ha le bottiglie vuote di fronte a sè come simbolo di ciò che è rimasto di vuoto, l’uomo d’affari non vede neanche quel vuoto, e per questo non prova vergogna. Questa mancanza lo porta  a non percepire più la realtà e gli impedisce di porsi, o farsi porre, alcun interrogativo.
"Gli uomini hanno delle stelle che non sono le stesse. Per gli uni, quelli che viaggiano, le stelle sono delle guide. Per altri non sono che delle piccole luci. Per altri, che sono dei sapienti, sono dei problemi. Per il mio uomo d'affari erano dell'oro. Ma tutte queste stelle stanno zitte. Tu, tu avrai delle stelle come nessuno ha..." "Che cosa vuoi dire?" "Quando tu guarderai il cielo, la notte, visto che io abiterò in una di esse, visto che io riderò in una di esse, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero. Tu avrai, tu solo, delle stelle che sanno ridere!"
E allora guardate il cielo e domandatevi: la pecora ha mangiato o non ha mangiato il fiore? E vedrete che tutto cambia... e sperate che per voi questo abbia sempre importanza.

Il Bignamino:
Mi disegni, per favore, una pecora?” “Questa è soltanto la sua cassetta. La pecora che volevi sta dentro”… “Questo è proprio quello che volevo”


*****

domenica

Gli arancini di Montalbano, di Andrea Camilleri


«Sono uno sbirro, ingegnere. Suo cugino ha messo in moto il meccanismo che disgraziatamente ho in testa e questo meccanismo non è più capace d'arrestarsi se non produce qualche risultato». Ecco l’origine di questi venti racconti, Montalbano non è capace di arrestare quel meccanismo nato da un gesto inopportuno, un tono di voce incongruo, una parola fuoriposto, e lui è li a non darsi pace fino alla soluzione del busillisi. Si può obiettare che la forma di narrazione breve mal si adatti al talento di Camilleri, eppure a mio avviso è tutto li, nell’arancino. Questa meravigliosa frittura non ha la vastità di una cena, il suo dolce svolgersi in antipasto, primo e secondo, la sua strutturata completezza, eppure se avete mai cenato ad arancini, fatti “come Dio comanda”, vi troverete a divorarli uno dopo l’altro, e a  non rimpiangere nulla di una cena sfarzosa. Così questi racconti forse mancano dell'atmosfera e nelle ambientazioni che si "respirano" durante lo studiato dipanarsi dei libri di Camilleri, ma nelle narrazioni vi è tutta la dignità dei suoi libri più belli, piccole storie fatte “come Dio comanda”, da divorare una dopo l’altra.
Troverete il sempre vulcanico Catarella:
"Pronti,dottori? è lei pirsonalmente di pirsona?"
"Si,Catarè."
"Che faceva,dormiva?"
"Sino a un minuto fa si,Catarè."
"E ora inveci non dorme cchiù?"
"No,ora non dormo più,Catarè."
"Ah,meno mali."
"Meno mali perchè,Catarè?"
"Pirchì accussì non l'arrisbigliai dottori."
O spararlo in faccia alla prima occasione o fare finta di niente.

Troverete le sue barocche cortesie:
«Catarella, mi devi fare un favore speciale e importante.»
«Dottori, quando vossia mi addimanda a mia pirsonalmente di farci un favore a vossia pirsonalmente di pirsona, fa un favori a mia quando che me l'addimanda.»

Troverete quell’italiana diffidenza verso la giustizia:
«Mi dica una cosa, Trupia, perché questo non l'ha detto al processo?»
«Pirchì nisciuno mi lo spiò. E po' iu con la liggi non ci voliva aviri a che fari. Cu si trova ammiscato con la liggi, cu lu tortu o cu la ragioni, ci perdi sempre le spise.»
«E perché ora mi sta contando tutto? Io sono un orno di legge. E lei lo sa benissimo.»
«Egregiu signuri, vossia non considera ca iu haiu sittant'anni passati. E perciò minni pozzu fùttiri tantu di vossia quantu di la liggi ca vossia rappresenta.»

Ho trovato il piacere tutto Messinese di ridere alla babbiata di Fazio: «Tra Pace e Contemplazione si trova il Paradiso...»

Ma soprattutto troverete...la vera ricetta degli arancini...e perfavore...non chiamateli crocchette di riso:
«Il giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone e di maiale in parti uguali che deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appressosi pripara un risotto, quello che chiamano alla milanisa (senza zaffirano, pi carità!), lo si versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre. Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini `na poco di fette di salame e si fa tutta una composta con
la carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pi carità di Dio!). Il suco della carne s'ammisca col risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s'assistema nel palmo d'una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e si copre con dell'altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d'ovo e nel pane grattato. Doppo, tutti gli arancini s'infilano in una padeddra d'oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d'oro vecchio. Si lasciano scolare sulla carta. E alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano!»