Uno sguardo sulle mie letture

Uno sguardo sulle mie letture

mercoledì

La pista di sabbia, di Andrea Camilleri


In “ La pista di sabbia” vengono meno le regole fondamentali del giallo. Una di queste che lo scrittore ha già reso elastica, se non violata, è quella più importante: il morto. “Qui l'unico morto che c'é è secondario rispetto al tema del libro”, precisa Camilleri, che parla di “tentativo di allargare i confini in cui il 'giallo' viene tenuto”. Per la verità, un morto c'è, ma non si tratta di un essere umano, bensì di un cavallo. Poteva mai il buon Salvo lasciarsi sfuggire l'occasione di avviare una delle proverbiali indagini apparentemente inutili e senza esito? “Se Montalbano segue la pista dell'uccisione del cavallo - racconta ancora Camilleri - é per diversificare le solite indagini. Appena può, da sempre, gli piace svicolare verso non usuali indagini, e questo è uno di quei casi”. Montalbano si muoverà maldestro e a disagio nel mondo delle corse clandestine, passatempo preferito di una certa aristocrazia terriera che scommette forte; ecco come descrive un party in questo ambiente dorato…ma come vedremo non proprio “aristocratico”:
«Le pirsone erano vestite che pareva cannalivari: tra i mascoli c'era chi era vistito da cavallerizzo, chi da ricevimento della regina d'Inghilterra con tanto di cilindro, chi in jeans e maglione a girocollo, chi da tirolese, chi in divisa da guardia forestale (almeno accussì gli parse), uno addirittura s'era parato come un arabo e un altro stava in pantaloncini corti e ciavatte da spiaggia»
Questa volta il nostro commissario è alle prese con l'inizio della vecchiaia, e non soltanto la sua forza si affievolisce, la lucidità si annebbia, ma le personali regole si allentano, e, di nuovo, tradisce Livia. Ma il risultato è un Salvo meno malinconico del solito, più incline ad una certa leggerezza d'animo, leggetevi la descrizione del rinfresco:
«“Hanno suonato! Hanno suonato!”
E po' tutto quello che vinni apresso fu priciso 'ntifico a 'na valanga o al tracimamento di un fiume. Ammuttannosi, spngennosi, truppicanno, urtannosi, dalle tri porte finestre si riversò nel vialone un'ondata di piena fatta di mascoli e fimmine vocianti.[…] Pariva il finale di una pillicula tragica. Sturduto, Montalbano aviva la 'mpressione che nella villa era scoppiato un incendio violento, ma le facci allegre di tutti quelli che currivano alla dispirata, gli fici subito accapire che si stava sbaglianno. Si scansò èer non essiri travolto e aspittò che la sciumara passasse. Il gong aviva annunziato che la cena era pronta. Ma com'è che avivano sempre fami 'sti nobili, 'sti imprenditori, 'sti omini d'affari?»
 Fazio è sempre alle prese con la ricerca di informazioni, e per farlo usa il “metodo siciliano:
«“Chi ti ha dato le informazioni?”.
“Un cugino dello zio di un mio cugino che ho scoperto che travaglia là”.
Le parentele, macari quelle tanto lontane da non essiri cchiù tali in qualisisiasi altra parte d'Italia, in Sicilia erano spisso l'unico sistema per aviri 'nformazioni, accelerare 'na pratica, scopriri indove era annata a finiri 'na pirsona scomparsa, trovare un posto a un figlio disoccupato, pagari meno tasse, aviri gratis i biglietti del cinema e tantissime altre cose che macari non era prudente fari sapiri a chi non era parente.»
Per un amante della cucina come me è poi stata “commovente” la descrizione degli antipasti (e solo quelli) in un ristorantino buono a Montereale marina:
«Doppo tanticchia, supra al tavolo non ci fu spazio manco per una spingula.
Gammaretti, gammaroni, totani, tonno affumicato, purpette fritte di nunnato, ricci di mare, cozze e vongole, pezzetti di purpo a strascinasali, pezzetti di purpo affucato, angiovi marinate nel suco di limone, sarde sott'oglio, calamaretti minuscoli fritti, calamaretti e seppie conditi con l'arancio e pezzetti d'acci, angiove arrutulate con la chiapparina 'n mezzo, sarde a beccafico, carpaccio di pisci spata»
Vi lascio con questo gustoso dialogo con  Catarellata:
«Erano le sei e mezza.
"Ah dottori dottori! Catarella sono!"
Gli vinni gana di garrusiare.
"Come ha detto scusi?" Fici cangianno vuci.
"Catarella sono, dottori!"
"Quale dottore cerca? Questo è il pronto soccorso veterinario."
"Oh matre santa! Mi scusasse, mi sbagliai."
Richiamò subito.
"Pronti? E' l'ambulatorio vetirinario?"
"No, Catarè. Montalbano, sono. Aspetta un momento che ti do il numero dell'ambulatorio."
"Nonsi, non lo voglio all'ambulatorio!"
"E allora, pirchì lo chiamai?"
"Non lo saccio. Scusasse, dottori, confuso sono. Può riattaccari che accomenzo da capo?"
"Va bene."
Richiamò per la terza volta.
"Dottori, vossia è?"
"Io sono."
"Che faciva, durmiva?"
"No, ballavo il rocknroll."
"Davero? Lo sapi abballari?"»

***

martedì

La trilogia della città di K., di Agota Kristof


«Arriviamo dalla Grande Città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone e, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche»
Tra le pagine de “La trilogia della città di K.”, di cui avete appena letto l’incipit, potrete trovare molto dei film di David Lynch, molto delle atmosfere Kafkiane, potrete trovare la moralità in bilico dei personaggi (ora cinici, ora più umani), il sesso costantemente accompagnato da elementi che lo rendono morboso e sporco, una scrittura vista come valvola di sfogo e paradiso dove rifuggire dall’orrore circostante, la necrofilia, la pedagogia, la storia, ma soprattutto troverete un bellissimo libro. Un libro diretto, crudo, tagliente come la lama di un coltello. Una scrittura che ti induce a riflettere a quanto sia labile e accidentato il corso della vita stessa. I fatti, anche i più orribili o assurdi, sono raccontati come verità assolute, senza aggettivi, senza giudizi; l’evanescente città di K fa da filo conduttore ai tre libri, intrecciati come nelle metamorfosi di Escher, una città che a posteriori può collocarsi in un paese dell’est europeo durante la seconda guerra mondiale, a posteriori perchè per sottolineare l’indeterminatezza dei luoghi, delle identità e delle ambientazioni, si utilizzano solo delle iniziali per città e cognomi.
Storie nella storia, bambini già adulti che superano l’età della fanciullezza per ritrovarsi protagonisti di un mondo disumano che non hanno costruito, che non condividono e che li vede protagonisti indipendentemente dalla loro volontà. Costretti a subire le brutalità di una guerra che non si combatte solo al fronte, ma si riversa per le strade, nelle case, tra la gente, instillando odio, incattivendo gli animi. Storie che non lasciano spazio al futuro come possibilità di riscatto e non lasciano spazio alcuno all’amore. La terra vista solo come una colonia penale per tutti i dannati che hanno il torto di nascere. Una favola nera, una fiaba cruda, spietata, riservata rigorosamente a un pubblico adulto.
Il grande quaderno, il primo libro della trilogia, inizia proprio come molte favole, con un abbandono. Klaus e Lukas, anime gemelle, inscindibili, legate oltretutto dal reciproco anagramma dei nomi, vengono lasciati da una madre disperata alla nonna anziana, cinica, priva di sentimenti, somigliante alla classica strega delle fiabe. Durante l’allucinante ed imbruttente soggiorno presso la vecchia nonna senza cuore i due gemelli decidono di scrivere per sopravvivere imponendosi una regola tanto semplice quanto ferrea:
«il tema deve essere vero. Dobbiamo descrivere ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo. Ad esempio, è proibito scrivere “Nonna somiglia a una Strega” ma è permesso scrivere “La gente chiama Nonna la Strega” ... Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti »
«Scriveremo: “Noi mangiamo molte noci”, e non “Amiamo le noci” perché il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e di obiettività. “Amare le noci” e “amare nostra Madre”, non può voler dire la stessa cosa. La prima formula designa un gusto gradevole in bocca, e la seconda un sentimento»
Come si vede da questi stralci i due bambini non hanno nulla della consueta fragilità dell’infanzia: aggirandosi come esseri inquieti nel paese in guerra, appaiono come impersonali e cinici osservatori di quanto avviene attorno a loro, senza sembrarne all’apparenza toccati. Come intransigenti narratori sono proprio loro a raccontarci con adulto distacco la cupa disperazione e la miseria che li circondano, si creano un proprio modus vivendi ed una propria morale, limpida quanto primitiva nella loro concezione infantile di bene e male, che li indurrà anche a compiere atti di pura e malvagia giustizia. I drammi della guerra travolgeranno ben presto il loro paese, ma non loro, una monade d’acciaio che rimane impassibile persino di fronte all’atroce morte delle persone a loro più vicine. Il lettore farà fatica a considerare i due gemelli come personalità distinte perché l’autrice volutamente li fa muovere come un’unica entità osservatrice, come i due occhi di un unico volto.
Nel secondo libro, la prova, la struttura del romanzo si scioglie in un vortice di traiettorie di angoscia, il tempo va avanti e indietro, la narrazione è affidata ad un mostruoso gioco di specchi mentre una ricca galleria di personaggi entrano in scena senza farsi annunciare e altrettanto improvvisamente spariscono dietro il sipario della vita. Le identità si confondo, si scambiano, si annullano in un castello di menzogne; quando la vita è insopportabile e il dolore divora il corpo e l’anima, chi racconta deve falsificare i fatti,  alterare gli avvenimenti, ecco allora che i morti si confondono con i vivi. In un’esistenza sterilizzata dai sentimenti sconvolta da violenza e solitudine, dove l’amore è un eccesso, la menzogna è l’unica vena che alimenta i personaggi, e li costringe alla vita.
« cerco – afferma Lukas – di scrivere delle storie vere, ma, a un certo punto, la storia diventa insopportabile proprio per la sua verità e allora sono costretto a cambiarla. [...] cerco di raccontare la mia storia, ma non ci riesco, non ne ho il coraggio, mi fa troppo male. Allora abbellisco tutto e descrivo le cose non come sono accadute, ma come avrei voluto che accadessero».
«Sono convinto, Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient'altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia».
Tutto viene, quindi, a confondersi, quello che prima sembrava un canto monofonico si presenta ora come una narrazione a più voci in un alternarsi di smentite e conferme che allargano il campo d’indagine e moltiplicano le angolazioni di veduta amplificando le possibilità di interpretazione e introducendo la parte conclusiva della trilogia.
Ed attraverso la disintegrazione progressiva e metodica della narrazione precedente, fino a creare nel lettore un’ansia da disorientamento, la Kristof ci trascinerà in modo avvincente nella terza menzogna, ultimo volume della trilogia, stravolgendo ogni aspettativa, perché niente è mai come sembra, e quando tutto è contraddittorio, tutto potrebbe essere falso. Vi troverete a star male, verrete irritati, sconvolti, commossi, senza romanticismi di sorta, solo dolore denudato nella sua essenza per procurare più sofferenza possibile.
«Camminiamo uno accanto all'altro fino al castello, ci fermiamo nel cortile, ai piedi dei bastioni. Mio fratello si arrampica sul muraglione e, giunto in cima, comincia a ballare al suono di una musica che sembra provenire da un sotterraneo. Balla, agitando la braccia verso il cielo, verso le stelle, verso la luna che sta sorgendo, piena. Esile figurina avvolta in un mantello nero, avanza sui bastioni ballando, io di sotto lo seguo correndo, gridando:
- No! Non farlo! Fermati! Scendi giù! Finirai per cadere!
Si ferma al di sopra di me:
- Non te ne ricordi? Camminavamo sui tetti, non avevamo mai paura di cadere.
- Eravamo giovani, non soffrivamo di vertigini. Scendi da lì!
Ride:
- Non avere paura, non cadrò, so volare. Tutte le notti plano sulla città.
Alza le braccia, salta, si spiaccica sul selciato del cortile proprio ai miei piedi».
A rimanere costante in tutti e tre i racconti è la follia umana: assassini, violenze, torture, abusi su minori, incesti, una devastante mancanza di umanità.
“Mi metto a letto e prima di addormentarmi parlo mentalmente a Lucas, come faccio da molti anni. Quello che gli dico è più o meno la stessa cosa di sempre. Gli dico che se é morto, beato lui, e che vorrei essere al suo posto. Gli dico che gli è toccata la parte migliore e che sono io a dover reggere il fardello più pesante. Gli dico che la vita è di una inutilità totale, è non-senso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l'immaginazione”

Titolo originale: Le grand cahier, La preuve, La troiséme mensogne
Anno: 1986, 1988, 1991
Pagine: 379
 Editore: Einaudi
ISBN: 978-88-06-17398-2

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Il bignamino: La terra è una colonia penale per tutti i dannati che hanno il torto di nascere

lunedì

Disturbo della quiete pubblica, Di Richard Yates

Disturbo della quiete pubblica si apre con la telefonata di Wilder alla moglie, la chiama per dirle che quella sera non può tornare a casa, lei chiede spiegazioni e lui dopo qualche farneticazione sbotta: “Lo vuoi veramente sapere, dolcezza? Perché ho paura che potrei uccidervi, ecco perché. Tutti e due”.

Disturbo della quiete pubblica, questo è il verdetto scritto sulla sua cartella quando verrà ricoverato nel centro specializzato nel trattamento degli alcolizzati violenti.

E John Wilder è alcolizzato, capita che perda il controllo, si agiti, urli e rechi disturbo a chi gli sta intorno, ma è ben lontano dallo stereotipo di alcolista, egli è sposato con una moglie che “ama le parole civile, ragionevole, sistemazione e rapporto” ha un figlio ed è un uomo di successo della middle class americana. Richard Yates, uno dei “grandi scrittori meno famosi d’america”, ha però compreso che nella vita non è tutto bianco o nero, che si può avere successo nel proprio lavoro, essere il più bravo di tutti, essere definito “indispensabile”, guadagnare molto ed allo stesso tempo essere rosi dall’incertezza, dall’ansia, dalla preoccupazione di come si viene visti dall’esterno, essere sempre intenti a calcolare, a valutare, a cercare di capire chi ha avuto di più, o più facilmente. Yates ha capito che il mondo non è “il posto migliore in cui stare: il posto in cui era più probabile che ci capitassero cose razionali”, ma è un mondo diviso in bastardi fortunati e perdenti.  John Wilder ha un progetto diverso della propria vita, vuole produrre un film, cosa per cui si sente tagliato, molto più che per il lavoro che ha sempre fatto. Si sente capace di una grandezza che rimane irrealizzata perchè le persone che lo circondano non vedono le sue doti eccezionali. E all’inseguimento di questo sogno “attiva” i semi dell’autodistruzione che risiedono in lui ed innesta un meccanismo implacabile che connette le cause agli effetti attraverso gli ingranaggi di una kafkiana macchina da tortura.

Non si può rimanere indifferenti a Wilder; si ascolta, si segue, si biasima, ma non si riesce proprio a giudicarlo. Nonostante la mania di autodistruzione, l’infedeltà, la cattiveria di cui è capace per gelosia o semplicemente a causa dell’alcol, non si riesce a condannarlo o a emettere un qualunque giudizio. Lui cade e si risolleva, lo vediamo barcollante e vorremmo aiutarlo ma rimaniamo a guardarlo, fino alla fine.

Yeats riesce a raccontare non solo la storia, ma il personaggio in maniera così equilibrata, matura e onesta da lasciare l’amaro in bocca, da farci chiudere il libro pensando che la “normalità” non esiste e tutto ciò che all’apparenza sembra chiaro, limpido e logico in realtà ha tante diverse sfaccettature.

il bignamino: in nome della debolezza, delle tenebre nevrotiche, della battaglia senza speranza e delle passioni autodistruttive dell’ignoranza
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giovedì

American Dust, di Richard Brautigan


Richard Gary Brautigan ha avuto un'infanzia travagliata a causa del divorzio precoce dei genitori e dei maltrattamenti subiti dai successivi compagni della madre. La fama arriva con la pubblicazione di Pesca alla trota in America (Trout Fishing in America) nel 1961. Trecentomila copie vendute nel primo anno, lezioni tenute ad Harvard, la copertina di Time Life, un disco in cui legge poesie e racconti, acclamato come nuova voce della letteratura americana e definito “un erede di Ernest Hemingway”, “un Mark Twain psichedelico”. Ma con gli anni, e il cambiamento della società statunitense, Brautigan non riesce a replicare quel successo, si chiude sempre più in se stesso per trascinarsi inesorabilmente verso la paranoia, l’alcolismo ed infine il suicidio. Bisogna partire da questa premessa per commentare questo libro, perché American Dust è un romanzo ispirato alla vita stessa dell’autore, in cui la narrazione scorre triste e rassegnata, fra ricordi e polvere, con la consapevolezza di chi si sente ormai fuori dai giochi, editoriali e non, esiliato dal mondo. Schegge di memoria che si muovono come in preda all’alcool, senza direzioni precise, tra rimandi interni e divagazioni nonsense. Ricordi che vorrebbero esplodere e cambiare strada, correggere il passato e redimere il destino, magari con l'aiuto di Superman. Non c'è nessun collante a tenere unite le cose. Oggetti ed esseri umani in questo breve romanzo se ne stanno lì, bizzarri e indifesi come granelli di polvere, del tutto scollegati dal loro contesto, pronti a essere spazzati via dal vento, uniti soltanto dallo sguardo e dal ricordo di un adolescente.
La polvere di Brautigan non lascia molte speranze: resta il fiato corto di una vita spezzata senza conoscere “quella cosa del sogno”. 

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Il Bignamino: Il ragazzino è un uomo e ricorda tristemente l'America dei suoi sogni