Uno sguardo sulle mie letture

Uno sguardo sulle mie letture

mercoledì

L'eleganza del riccio, di Muriel Barbery

 Muriel Barbery è un ex insegnante di filosofia dell'educazione in Normandia, una francese affascinata dal Giappone e dalla cultura giapponese, un fascino ed un’ammirazione che emergono con forza dal suo secondo romanzo “L'eleganza del riccio” uscito in Francia nel 2006.
La narrazione di questo libro è affidata a due voci femminili che si alternano irregolarmente esprimendosi in prima persona e si rapportano entrambe al lettore creando due personaggi tanto apparentemente diversi quanto intimamente uguali.
La prima voce è quella di Renée, portinaia cinquantaquattrenne di un immobile che si trova al numero 7 della rue de Grenelle, via situata nel settimo arrondissement di Parigi, quartiere alto borghese, abitato per lo più da intellettuali tendenzialmente di sinistra. Renée è curiosa e colta, ma ai ricchi inquilini fa credere di essere identica allo stereotipo della portinaia, e dunque li rassicura mettendo a tutto volume un programma trash, e mentre loro la immaginano «stravaccata davanti all' apparecchio», si rintana in una stanzetta ed ascolta Gustav Mahler ed Henry Purcell, ha letto Marx e ama gli scrittori russi (Il suo gatto si chiama Lev in omaggio a Tolstoj), discetta sulla fenomenologia di Husserl e ama i film di Yasujiro Ozu. Per dar forza alla sua clandestinità veste sciattamente, fa continue spese ostentando sporte da cui emergono ciuffi di verdura, grosse fette di carne o prosciutto, pasta e passata di pomodoro, e via dicendo. Il prologo da già un’idea del personaggio e del suo camuffamento
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   «Marx cambia completamente la mia visione del mondo» mi ha dichiarato questa mattina il giovane Pallières che di solito non mi rivolge nemmeno la parola.
   Antoine Pallières, prospero erede di un'antica dinastia industriale, è il figlio di uno dei miei otto datori di lavoro. Ultimo ruttino dell'alta borghesia degli affari - la quale si riproduce unicamente per singulti decorosi e senza vizi -, era tuttavia raggiante per la sua scoperta e me la narrava di riflesso, senza sognarsi neppure che io potessi capirci qualcosa. Che cosa possono mai comprendere le masse lavoratrici dell'opera di Marx? La lettura è ardua, la lingua forbita, la prosa raffinata, la tesi complessa.
   A questo punto, per poco non mi tradisco stupidamente.
   «Dovrebbe leggere L'ideologia tedesca» gli dico a quel cretino in montgomery verde bottiglia.
   Per capire Marx, e per capire perché ha torto, bisogna leggere L'ideologia tedesca. È lo zoccolo antropologico sul quale si erigeranno tutte le esortazioni per un mondo migliore e sul quale è imperniata una certezza capitale: gli uomini, che si dannano dietro ai desideri, dovrebbero attenersi invece ai propri bisogni. In un mondo in cui la hybris del desiderio verrà imbavagliata potrà nascere un'organizzazione sociale nuova, purificata dalle lotte, dalle oppressioni e dalle gerarchie deleterie.
   "Chi semina desiderio raccoglie oppressione" sono sul punto di mormorare, come se mi ascoltasse solo il mio gatto.
   Ma Antoine Pallières, a cui un ripugnante aborto di baffi non conferisce invece niente di ferino, mi guarda, confuso dalle mie strane parole. Come sempre, mi salva l'incapacità del genere umano di credere a ciò che manda in frantumi gli schemi di abitudini mentali meschine. Una portinaia non legge L'ideologia tedesca e di conseguenza non sarebbe affatto in grado di citare l'undicesima tesi su Feuerbach. Per giunta, una portinaia che legge Marx ha necessariamente mire sovversive ed è venduta a un diavolo chiamato sindacato. Che possa leggerlo per elevare il proprio spirito, poi, è un'assurdità che nessun borghese può concepire.
   «Mi saluti tanto la sua mamma» borbotto chiudendogli la porta in faccia e sperando che la disfonia delle due frasi venga coperta dalla forza di pregiudizi millenari.
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La seconda voce è quella di Paloma (e del suo journal intime), ragazzina dodicenne altrettanto determinata ad occultare i propri talenti al mondo dei superficiali borghesi. Lei finge di essere una ragazzina come le altre, si veste come loro, a scuola segue bene ma senza emergere, pur essendo straordinariamente in anticipo rispetto alle coetanee, è capace ad esempio di leggere i manga Jirō Taniguchi in lingua originale.
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Ieri sera a cena la mamma ha annunciato che esattamente dieci anni fa ha cominciato la sua "anaalisi", come se fosse un buon motivo per fare scorrere fiumi di champagne. Siete tutti d'accordo che è una cosa me-ra-vi-glio-sa! Mi pare che solo la psicanalisi possa competere con il cristianesimo nella predilezione per le sofferenze prolungate. Quello che mia madre non dice è che da dieci anni prende degli antidepressivi. Ma evidentemente non mette in relazione le due cose. Credo che gli antidepressivi non servano ad alleviare le sua angosce, ma a sopportare l'analisi. Quando racconta le sue sedute, c'è da sbattere la testa al muro. Il tizio fa «Hmmm» a intervalli regolari ripetendo i finali delle frasi («E sono andata da Lenôtre con mia madre»: «Hmmm, sua madre?»; «Mi piace molto la cioccolata»: «Hmmm, la cioccolata?»). Se è così, domani posso lanciarmi anch'io nella psicanalisi. Oppure le propina delle conferenze della «Causa freudiana» che, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non sono dei rebus ma dovrebbero avere un qualche significato. Subire il fascino dell'intelligenza è davvero molto affascinante. Secondo me l'intelligenza non è un valore in sé. Di gente intelligente ce n'è a pacchi. Ci sono molti dementi, ma anche molti cervelli eccezionali. Sarà una banalità, ma l'intelligenza in sé non ha alcun valore e non è di nessun interesse. C'è gente molto capace che ha speso una vita sulla questione del sesso degli angeli, per esempio. E molte persone intelligenti hanno una specie di bug: credono che l'intelligenza sia un fine. Hanno un'unica idea in testa: essere intelligenti, e questa è una cosa stupidissima. E quando l'intelligenza crede di essere uno scopo, funziona in modo strano: non dimostra la sua esistenza con l'impegno e la semplicità dei suoi frutti, bensì con l'oscurità della sua espressione.
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Paloma è a tal punto lucida e consapevole della vanità del tutto (in particolare della rinuncia agli ideali di cui l'età adulta è ai suoi occhi irrimediabilmente schiava) da aver deciso di uccidersi, il giorno del tredicesimo compleanno, per non dover passare anche lei dalla parte della rinuncia. Una rinuncia a priori insomma, scelta invece che subita.
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la gente crede di perseguire ideali, raggiungere l’altezza delle stelle, ma si finisce tutti “comme des poissons rouges dans un bocal” (come dei pesci rossi in una boccia).
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Lo sguardo di Renée e di Paloma si posa sul microcosmo del condominio dove risiedono, invita a riflettere con una semplicità disarmante, e la semplicità, spesso, non è facile da raggiungere. I due diari procedono in forma contrappuntistica: dapprima hanno in comune solo la scelta della clandestinità e l’ambiente esterno; poi si sorreggono l’un l’altro e, infine, grazie all’azione catalizzatrice di Monsieur Ozu, si incontrano e si completano tra di loro, proprio come avviene alle rispettive redattrici. L’incontro avviene a livello più alto, ben al di là delle differenze sociali e contingenti, avviene a livello della Bellezza, dell’attimo eterno sottratto al fluire insensato. La gentilezza, l’amicizia, la solidarietà sottraggono, magari solo per un attimo, ma per sempre, a un Tempo volgare e ostile, la Vita.
Ci sono anche altri personaggi di valore, la domestica portoghese di casa de Broglie ad esempio, che invece di rientrare nello stereotipo della gretta donna delle pulizie è una vera ristocratica che "sebbene circondata dalla volgarità, non ne viene sfiorata".
Tutto qui? E la ragione del successo di questo libro? Immagino che molto si basi sulla simpatica furbizia della morale non nascosta del libro: non bisogna mai fidarsi delle apparenze. Perché se la più sciatta e scorbutica portinaia parigina (il «riccio» di cui pagina dopo pagina si scopriva l'eleganza) può nascondere cultura e sensibilità, allora anche il più bistrattato lettore può aspirare allo stesso riconoscimento. C’e’ inoltre l’educata denuncia della superficialità borghese e la simpatica trasformazione del «bruco/riccio» Renée in farfalla, utilizzando tutti gli ingredienti che fanno la forza delle favole, dal mito di Cenerentola a quello della rivincita degli oppressi, dal fascino dell'Oriente (e dei suoi «sorprendenti» bagni) alla lungimiranza giovanile (e dei suoi coinvolgenti entusiasmi), dalla forza dell'amore al dramma della morte. Senza dimenticare il piacere di una citazione tolstoiana messa lì al momento opportuno.
 Ciò malgrado il libro non mi ha entusiasmato, si avverte a volte uno “slittamento di piani” in cui ci si chiede se a parlare fosse Renée o piuttosto Paloma. Senza contare che la filiale-materna corrispondenza tra l’adolescente e la donna matura sboccia quasi per incanto, non troppo suffragata dallo svolgimento della narrazione, e a meno di voler dire che “le anime belle si riconoscono subito fra di loro”, fa sorgere il dubbio che Renée e Paloma, pur presentate con tante differenze, non siano in realtà che una voce sola. Eccede inoltre in più di un’occasione in dissertazioni e citazioni appesantendo la storia con un eccesso di nozionismo, bloccandola, irrigidendola. Personalmente trovo che la narrazione decolli solo all'arrivo di Monsieur Ozu, in cui finalmente l'autrice si dedica al personaggio in quanto tale e non al personaggio in quanto veicolo di pensieri.
Rimane comunque un libro piacevole, a tratti molto piacevole, che mi ha spinto ad aggiungere nella mia wish list i libri “Teresa Desqueyroux” e “Groviglio di vipere” del nobel François Mauriac, mi ha fatto ascoltare per la prima volta alcuni brani di Georg Friedrich Händel, il terzo atto di Dido and Æneas di Purcell e…il rap MC Solaar, e mi sono ripromesso di “assaporare lo spettacolo” del Wabi-cha, stile della Cerimonia del tè giapponese praticata secondo gli insegnamenti dei monaci buddisti. Quindi un bilancio sicuramente positivo, che mi spinge a consigliare questo libro soprattutto ai più curiosi ed eclettici lettori di anobii.

La citazione: …lo sguardo è come una mano che tenta inutilmente di afferrare l’acqua che scorre. Si, l’occhio percepisce ma non scruta, crede ma non interroga, recepisce ma non indaga, è privo di desiderio e non persegue nessuna crociata

Titolo originale: L'élegance du hérisson
Traduzione di Emanuelle Caillat e Cinzia Poli

venerdì

Una storia semplice, di Leonardo Sciascia


Leonardo Sciascia
Una storia semplice Adelphi
18 marzo 1989, una telefonata improvvisa è la premessa di un crimine, un omicidio, di carattere malavitoso, intorno al quale si stringe un cerchio di omertà e di paura, un delitto in cui la mafia si nasconde attraverso un’immagine di giustizia, e si impone su coloro che sono “vinti” dalla vita costringendoli a percorrere una strada di silenzio e di sottomissione.
Una scrittura precisa e asciutta che lascia poco o nulla alla retorica, un modo di scrivere è perfettamente calzante con questo passaggio:

“il brigadiere cominciò a fare il suo lavoro di osservazione, in funzione del rapporto scritto che gli toccava poi fare: compito piuttosto ingrato sempre, i suoi anni di scuola e le sue non frequenti letture non bastando a metterlo in confidenza con l’italiano. Ma, curiosamente, il dover scrivere delle cose che vedeva, la preoccupazione, l’angoscia quasi, dava alla sua mente una capacità di selezione, di scelta, di essenzialità per cui sensato ed acuto finiva con l’essere quel che nella rete dello scrivere restava. Così è forse degli scrittori italiani del meridione, siciliani in specie: nonostante il liceo, I’università e le tante letture.”

Amo la Sicilia, e quanto mi colpisce rivedere in certi passaggi quella “indifferenza” alla morte, naturale e causata,  che è tipica delle generazioni antecedenti alla mia…e non solo:

“Io voglio sapere da lei, signora, se ha qualche ragione o sospetto riguardo all’uccisione di suo marito” La signora scrollo le spalle “Era siciliano” disse “e i siciliani, ormai da anni, chi sa perché, si ammazzano tra loro” “giudizio indefettibile”disse ironicamente il figlio”

“Ma il professore parlò dei propri mali, lasciando memorabile al brigadiere (ma non condivisibile nell’energia dei suoi trent’anni) la frase che ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza”

lunedì

La regina dei castelli di carta, di Stieg Larsson


Se si è iniziato il terzo (ed ultimo) romanzo della trilogia Millenium, vuol dire che lo si leggerà con la testa ed il cuore rivolti alla giovane hacker  Lisbeth Salander. L’avevamo lasciata immobilizzata in un letto d'ospedale con una pallottola in testa. Come sempre è una minaccia, stavolta per i potenti organismi segreti che rischiano di crollare come castelli di carta. Deve sparire, meglio se rinchiusa in un manicomio, la cospirazione di cui si trova suo malgrado al centro, iniziata quando aveva solo dodici anni, deve terminare adesso, con o senza la sua vita. E poco importa che la trama sia costellata di storielle parallele di dubbio interesse, che vi siano personaggi extra che appaiono e scompaiono in qualche capitolo, che continui l'irritante attività sessuale di Blomkvist alla cui porta bussano in continuazione donne che desiderano farsi sollazzare senza impegno da lui (che la mia sia solo invidia?); poco importa l’interesse nullo per le impronunciabili strade di Stoccolma o per la storia politica svedese perchè i nostri personaggi, fortunatamente, continuano ad essere loro, a non deludere e ad appassionare, si riaffermano in tutte le loro caratteristiche: il disumano Zalachenko ed il suo inquietante figlio, l’inarrestabile giornalista Mikael e sua sorella Annika Giannini che accetta la difesa legale di Lisbeth, oltre all'eterna amante Erika Berger…e Lei, l’Unica, la versione cyber-punk di Pippi Calzelunghe (Larsson era un fan di Astrid Lindgren), Lisbeth.
Sembra che Larsson sul divano bianco dell'appartamento di Stoccolma era solito rivolgere a Eva Gabrielsson, la sua compagna di oltre trent'anni, i suoi  «Non indovinerai mai che cosa ha appena fatto Lisbeth Salander». Perche’ alla fine della trilogia ci si è ormai affezionati a lei, forse innamorati, ed allora poco importano i diversi, presunti, difetti, la domanda che ci si pone e’ sempre la stessa, quella dell’autore, di cosa sarà mai capace stavolta Lisbeth Salander?
    Forse è vero che Lisbeth è un’icona di ciò che molte ventenni vorrebbero essere, e di come molte 45enni oggi vorrebbero essere state. E’ ribelle e intelligente, anticonformista in senso stretto, una che ama vivere al suo personalissimo modo e secondo le sue regole con una forte allergia per qualsiasi tipo di autorità. E’ sociopatica, cinica, dura e soffre di una sindrome con una vaga componente autistica.
Un personaggio commovente ed intenso, che si ha l’impressione abbia preso vita e spazio, pian piano, fino a che Larsson, intelligentemente, non si è limitato solo a gestirlo, approfittando di un profilo psicologico inquietante ma pieno di fascino, ma ne ha fatto il perno attorno a cui ruota l’intera trilogia. E alla fine questo terzo volume non solo è godibile quanto gli altri ma per una volta chiude degnamente una trilogia. E se così non fosse, poco importa perchè alla fine, ciò che rimane davvero è l’immagine unica ed indimenticabile di lei, di Lisbeth, una donna che odia gli uomini che odiano le donne.

The End? Forse, ormai spero nel quinto volume, contenuto nel pc di Stieg e custodito da Eva Gabrielsson, e spero che dall’aldilà’ Stieg detti a qualche medium anche il quarto manoscritto, in cui farebbe la sua comparsa la sorella gemella di Lisbeth Salander. La speranza è come Lisbeth, l’ultima a morire.

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